Si può andare oltre la rivalità?
MAURO BENEDETTI - psicologo psicoterapeuta di formazione psicoanalitica secondo il pensiero di Luis Chiozza
La rivalità, tema delicato e complesso, riceve solitamente poca attenzione anche da parte della psicologia. Ciò è dovuto ad una serie di malintesi consensuali che conducono a considerare la rivalità un atteggiamento positivo ed appartenente alla natura dell’uomo. Una attenta analisi di tali malintesi permette di cogliere orizzonti più ampi che trascendono la rivalità. La concezione darwiniana dell’evoluzione viene rielaborata alla luce della biologia moderna inserendo il concetto di ‘lotta per la sopravvivenzà all’interno del più ampio concetto di coevoluzione. Dal punto di vista psicologico l’argomento è inquadrato nella prospettiva psicoanalitica di Luis Chiozza che, proseguendo nel solco tracciato da Freud, rilegge il complesso di Edipo ed offre un importante contributo alla psicoanalisi contemporanea con il concetto del “falso privilegio del padre”.
Introduzione
Affrontare il tema della rivalità è arduo perché comporta divergere da alcune credenze che si fondano su malintesi consensuali che commenterò in questo breve scritto, utilizzando la teoria psicoanalitica; in particolare farò riferimento al pensiero di Luis Chiozza1.
Della rivalità si parla poco. Anche la letteratura psicoanalitica corrente trascura alcuni aspetti fondamentali e non offre molti spunti di riflessione. Tale disinteresse si può spiegare, in parte, con il fatto che nella società contemporanea la rivalità è considerata ‘normale’ ed è noto che ciò che è normale diviene ‘invisibile’. Proviamo ad avviare la riflessione prendendo spunto dalla definizione del termine ‘rivale’ che, come sappiamo, deriva dal latino rivus, ‘ruscello, rivo’, ed è definito dai dizionari come colui che spartisce con altra persona l’acqua d’un medesimo ruscello a scopi agricoli; chi compete o concorre con altri per raggiungere uno stesso scopo. Una nota interessante è che nell’etimo della parola ‘rivo’ troviamo una derivazione dall’antico latino ruma-rumen, che significa ‘mammella’ (‘dove scorre il latte’)
. La rivalità, quindi, porta implicito nella sua stessa definizione un sentimento – e un atteggiamento - di inimicizia che induce alla lotta contro un antagonista.
Nelle situazioni in cui lo scopo è la conquista di un bene necessario alla propria sopravvivenza si può comprendere - in parte - la lotta contro l’Altro, ma riscontriamo atteggiamenti di intensa rivalità anche (e soprattutto!) nella società del benessere in cui i beni abbondano e la disputa non è necessaria.
Da cosa è alimentato allora questo sentimento che induce a considerare l’Altro una minaccia, un nemico da vincere, pena il sentirsi sottomessi? Che spinge ad un continuo confronto con gli altri? Che incita a primeggiare pagando il prezzo di un conflitto interiore?
La rivalità è utile all’evoluzione?
Uno dei malintesi più diffusi riguarda l’opinione che la rivalità e la competizione siano stimoli positivi che permettono all’uomo di esprimere al meglio le proprie capacità e potenzialità. Pertanto il consenso generale considera ‘normale’ e ‘sano’ rivaleggiare, cercare di essere ‘vincenti’, imporre la propria idea, sottomettere l’altro. Ma, come vedremo, si tratta di un malinteso alimentato da un affetto inconscio rimasto immutato nei secoli. Ricordo solo alcuni esempi illustri. Si racconta che Giulio Cesare, nel passare accanto a un villaggio di ‘barbari’, esclamò che avrebbe preferito essere il primo tra loro che secondo a Roma; John Milton, scrittore e saggista inglese del 1600, scrive: “Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso”; Gioacchino Belli, il noto poeta italiano, esprime con un sonetto il medesimo desiderio: “Io sempr’ho inteso ch’è mejo èsse testa / d’alicetta che coda de storione”. Il fatto che ancora oggi sentiamo di approvare il desiderio di predominare non ci deve sorprendere perché, come Freud ci ha insegnato, nell’inconscio non esiste la dimensione temporale. Ma l’errore di pensiero insito in queste espressioni risulta lampante alla luce di semplici quesiti: come può Cesare governare senza qualcuno che accetti di essere governato? Come è possibile che una ‘alicetta’ possa vivere senza il corpo e la coda? In definitiva, come potrebbe esserci la vita se tutti riuscissero a realizzare il desiderio di essere testa, capi, direttori, allenatori, presidenti? Chiaramente, si può rispondere con altrettanta semplicità, che è meglio essere il primo perché solo così ci si può sentire soddisfatti e realizzati; e per riuscire ad essere il primo è inevitabile rivaleggiare con gli altri. La vita viene così equiparata ad una competizione sportiva.
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