Riflessioni su un percorso di psicoterapia ai tempi del Covid 19. Il caso clinico: Luca
ELEONORA RIVA
L’emergenza sanitaria COVID-19 ha imposto modifiche radicali alla pratica clinica che ha dovuto fare i conti con il cambiamento repentino della quotidianità. Tali modificazioni si sono rese necessarie al fine di proseguire le terapie e poter preservare il lavoro terapeutico in una situazione di precarietà ed incertezza
La riflessione che mi sento di fare è relativa al setting con il quale in questo periodo mi sono trovata più volte a fare i conti, non tanto per lo spazio fisico entro il quale si svolge la terapia, ma per le norme contrattuali che regolano il rapporto terapeutico.
Alcuni miei pazienti si sono ammalati di Covid 19, uno di loro gravemente. È Luca, 58 anni, arrivato in studio due anni fa spinto dalla moglie. Vive con lei da 25 anni, non hanno figli. Lavora da circa 30 anni come impiegato presso una banca poco distante dalla sua abitazione. È affetto da epilessia da quando è adolescente. Quando giunge da me è appena stato inserito in un gruppo di lavoro nuovo. Dopo questo cambiamento sono comparsi i primi sintomi depressivi: abbassamento del tono dell’umore, perdita di interesse, perdita dell’appetito, irritabilità e pensieri negativi.
Luca afferma di essere depresso, di non riuscire a fare le cose che faceva prima. Descrive problemi a concentrarsi e difficoltà a ricordare le cose. Si colpevolizza per “quello che è diventato”, afferma di essere solo un peso per tutti. Non riesce ad immaginare una via d’uscita alla sua situazione.
Seppur a fatica, vista la sua scarsa fiducia in un esito positivo, iniziamo un percorso di psicoterapia ad orientamento psicodinamico. Parallelamente, a seguito di una visita psichiatrica, Luca inizia anche una cura farmacologica.
Le prime settimane e i primi mesi sono faticosi: le sedute si susseguono, apparentemente senza uno scopo preciso. Lavoriamo sui convincimenti emotivi, sul peso che la perdita di lavoro ha avuto per l’esordio della sintomatologia, sulla fragilità già presente prima dell’episodio scatenante. Via viai nostri incontri iniziano ad essere per lui un appuntamento importante della settimana a cui non vuole mancare.
Esattamente dopo 6 mesi, Luca decide di riprendere a fare tennis, “giusto per fare qualcosa”. Il sonno risulta essere ancora interrotto e le giornate sempre troppo lunghe. In seguito, accanto al tennis, ritrova parte del suo appetito che aveva perduto. Questo per me è un buon segno: significa che sta elaborando quell’atteggiamento fortemente auto-colpevolizzante che da sempre lo perseguita.
Ad un anno di distanza dal nostro primo incontro, Luca decide di cambiare il proprio atteggiamento nei confronti del gruppo di lavoro.
Dopo ulteriori mesi, a fronte di un ritrovato e sufficiente tono dell’umore, cambia terapia farmacologica, diminuendo la quantità di farmaci e si rimette in pista in campo lavorativo.
Dopo 2 anni di terapia, Luca ha ritrovato il suo senso dell’umorismo ed ha riscoperto una certa leggerezza nell’affrontare la vita quotidiana. Non vuole ancora interrompere la terapia sebbene io ritenga che potrebbe farlo visto il ritrovato equilibrio psicologico. Sente ancora il bisogno di lavorare su alcuni aspetti di sé che lo rendono fragile di fronte a certi eventi traumatici e ai cambiamenti.
A questo punto del nostro percorso si inserisce la pandemia. È marzo 2020. La mia ultima seduta in studio prima del lockdown è stata proprio con Luca, di martedì, come ogni martedì alle 17.30.
Il giorno successivo a questa ultima seduta mi chiama e mi chiede come sto, capisco subito che qualcosa non va e gli chiedo il perché di questa preoccupazione. Mi risponde di aver paura di avermi contagiato. Si è svegliato con la febbre alta e una tosse fastidiosa. Cerco di rassicurarlo come meglio posso, ma sono preoccupata, per me, ma soprattutto per lui a causa delle patologie delle quali soffre. Quando finisce la telefonata cominciano i miei sensi di colpa perché per venire in seduta da me prende il treno in quanto non può guidare. Ho pensieri come «avrei dovuto dirgli di stare a casa già a fine febbraio, non l’ho tutelato abbastanza».
Passa qualche giorno e non ho notizie. Posso aspettare il martedì nell’ora della nostra seduta o chiamarlo prima per sapere come sta. Da quel momento decido di modificare il setting.
Finora, il ricorso a strumenti tecnologici per effettuare colloqui era circoscritto a situazioni particolari, cambiamenti di vita dei pazienti, difficoltà ad incontrarsi per lontananza, in cui l’unica soluzione per non interrompere il trattamento, rimaneva appunto un video collegamento in skype, una modalità comunicativa, non accettata da tutti né, ancora, molto diffusa. Sebbene anche Freud, alla fine dell’Ottocento, abbia ritenuto utile fare ricorso ad una variazione del setting classico nel caso di Katharina – tenendo i colloqui al tavolino di un albergo in un rifugio alpino – tuttavia l’emergenza sanitaria ha determinato una situazione del tutto nuova per tutti i pazienti e tutti i clinici. Nel momento contingente lo strumento tecnologico non è più lo strumento che entra dentro la stanza, ma è lo strumento grazie al quale è possibile mantenere la continuità del legame permettendo un adattamento del setting alla precarietà della situazione. Le norme di restrizione hanno portato ognuno di noi a confrontarsi con questi nuovi strumenti inserendoli nel setting.
Ricomincio a chiamare Luca: la situazione clinica è peggiorata, fa fatica a respirare e la febbre è sempre più alta; dalle videochiamate passiamo alle telefonate, poi ai messaggi fino al punto che lo ricoverano d’urgenza e da lì non ho più sue notizie ma comincio a sentire la moglie che avevo conosciuto solo attraverso i suoi racconti.
Subito è risultato impensabile lasciare illesa la “ritualità” dello stesso giorno alla stessa ora. Un primo problema da affrontare, quindi, sono stati l’organizzazione logistica e lo spazio interno, necessariamente flessibili. Ciò ha portato a riflettere sul setting che, va sottolineato, è in funzione del benessere della persona.
Sento la moglie di Luca al telefono due volte a settimana, o ogni qualvolta l’ospedale chiama per darle notizie. È emotivamente difficile perché siamo preoccupate entrambe, la moglie ha paura che entri nuovamente in depressione e che si lasci andare ma io le dico che è un combattivo e ad ogni telefonata ha bisogno che le ripeta questa cosa.
Dopo tre settimane di silenzio mi arriva un messaggio da Luca: «Quadro clinico migliora. Qualcuno mi ha insegnato a combattere e lo faccio sempre». Da quel giorno con grande gioia comincio a risentire anche lui fino a quando dopo due mesi di ospedale torna a casa.
Tutto questo mi ha fatto riflettere su come sia stato importante modificare il setting su misura del contesto. Quello che è stato fondamentale a mio avviso, per la nostra relazione, è stata la continuità, far sentire la presenza al di là di tutti i modelli. L’essere presente in modo continuo e attivare la rete sociale affettiva ha permesso di contenere l’ansia sia mia che dei pazienti.
La perdita degli aspetti materiali ed esterni del setting, delle coordinate spaziali della stanza di consultazione, è stata, per così dire, compensata da nuovi elementi del mondo e della realtà dei pazienti che hanno abitato e co-costruito ciò che si potrebbe definire, provvisoriamente, lo scenario del colloquio. Il paziente ci ricorda sempre l’impossibilità di essere rinchiuso in una somma di tecniche e teorie poiché la pratica terapeutica incontra una soggettività che non può esservi riassorbita. Così un evento pandemico ha promosso il confronto con quelle regole che a volte rischiano di ostacolare il moto della pratica clinica.
Una delle funzioni del setting è quella di permettere che il processo si svolga cogliendo le comunicazioni inconsce che avvengono nel campo simbolico-analogico. Dall’esperienza di questa esperienza ho potuto avvertire quanto il processo avviato nella stanza di terapia continua a prendere forma e svilupparsi nell’online.
Nel corso del tempo, nel movimento psicoanalitico si sono sempre svolti dibattiti sull’identità della psicoanalisi e sulla sua specificità, vale a dire cosa è psicoanalisi e cosa non lo è, ed anche riflessioni sugli accorgimenti tecnici che rendono possibile il lavoro psicoanalitico. Avendo fiducia nella psicoanalisi come teoria e come metodo terapeutico possiamo tentare di pensare ad accorgimenti e cambiamenti che possono adattarsi alla realtà online senza snaturare il metodo stesso. Infatti, le teorizzazioni dovrebbero essere concepite come un tentativo provvisorio e parziale di interpretare gli elementi operativi e le valenze trasformative della prossimità specifica della situazione psicoanalitica e del dialogo che in essa si svolge.
L’esperienza del covid-setting ha messo in luce, oltre alla centralità, nelle relazioni di aiuto, del setting interno come assetto mentale del clinico, anche la necessità di una riflessione a tutti i livelli sulle modalità con cui adattare in maniera flessibile gli strumenti teorici e la prassi clinica a congiunture straordinarie.
Dopo la condizione dovuta all’infezione da Covid del paziente sono emersi anche dei sintomi legati al trauma psicofisico subito e al momento del percorso psicoterapeutico in atto Luca si trova in una condizione psicologica a lui più favorevole.
Nel concludere la riflessione sul caso ho ritenuto necessario sottolineare che lo psicologo-psicoterapeuta ha il compito di fare i conti con la contemporaneità in cui vive. Il momento storico che stiamo vivendo ci ha costretto a riformulare risposte adattabili per l’intera collettività.