Il minimalismo nella pratica medica e nel linguaggio musicale: l’assenza di evidenze note e l’essenza delle sette note.
Una riflessione su Covid e “less is more”
ANTONINO GIANÌ
Una premessa è necessaria: spendiamo sempre più per la nostra salute e per governare il sistema sanitario e, tuttavia, malgrado i mirabolanti progressi scientifici e tecnologici, la nostra fiducia nei medici e verso l’intero sistema è in costante calo. Studi condotti dal sociologo Gianfranco Domenighetti hanno evidenziato che circa l’80% della popolazione crede che la medicina sia una scienza esatta o quasi; uguale credenza è condivisa dal 40% dei medici generalisti e scende all’8% quando sono intervistati medici specialisti in medicina preventiva e sociale. Rapporto alquanto critico che si traduce, tra l’altro, nel crescente ricorso e nel successo delle medicine “alternative”: e qui la radice “alter” sta non solo per ‘diverso’ ma anche per alternante, ciclico; si va pertanto alla riproposizione della medicina orientale, della omeopatia, della medicina naturalistica passando per i vari sentieri (vedi stamina e similari) e sieri (dal Bonifacio degli anni 70 al più recente Di Bella).
L’impressionante oggettività scientifica e le fantascientifiche apparecchiature della medicina moderna lasciano molti insoddisfatti (eccezion fatta per le multinazionali della tecnologia medica e per l’indotto conseguente).
Studi, revisioni e controlli sistematici della letteratura scientifica da una parte ed evidenze derivanti dalla “Medicina della narrazione” dall’altra orientano a rivedere la professione o meglio il “proferire” medico (pro – ferire?) recuperando condizioni e valori fondanti della medicina.
Ritengo sia necessario riappropriarci di alcune certezze proprie di grandi medici e fatte proprie dalle organizzazioni di successo ove know-how e make–how si intrecciano aggiungendo, di fatto, nuovo valore.
Mi sovvengono qui le parole di Bernard Lown.
Lown, già professore emerito di cardiologia alla Harvard School of Public Health, ci ricorda che il medico appartiene a due culture: quella dominante è la scienza, l’altra, spesso dominata, è l’arte di curare, indispensabile al pieno successo della scienza stessa; in futuro, dice Lown, il dominio della scienza andrà oltre la malattia e la cura ma non sostituirà mai l’arte.
E l’arte (da ‘arto’, cioè mani e braccia) in tutte le sue espressioni più o meno faticose o “nobili” come le applicazioni scientifiche, la letteratura, la scultura, la pittura, la musica, tende a riproporre e ricondurre quel rapporto ottimale tra “tempo e fare nel tempo” antitetico alla catena di montaggio degli opifici dei recenti memoriali e, ahimè, mutuati nei visitifici dei nostri servizi ambulatoriali e vaccinali.
Ottica e prospettiva massimizzante pervade oggi la medicina secondo la quale il più equivale al meglio in una sorta di ostinazione diagnostico-terapeutica che si concretizza con la illogica somministrazione di farmaci e, nella prevenzione, a volte di vaccini; nella esecuzione di interventi chirurgici di inefficace evidenza (ma di evidente ritorno economico per il sistema induttore); ed ancora attraverso i “ riti “ spesso celebrati e consumati anche nella prevenzione che non reggono al lume della ragione e, ancora meno, alle evidenze della letteratura scientifica .
È sotto gli occhi di noi tutti la visione di braccia che sorreggono montagne di radiografie, referti di laboratorio e modernissime diagnostiche in immagini: esse- sostituite oggi in parte da più leggeri byte informatici - certamente rappresentano il retaggio delle “offerte votive”, in antico presentate ai sacerdoti di Esculapio ad Epidauro, per implorarne ed evocarne una possibile guarigione.
Ma, alla luce di quanto sopra, se emerge che “il più non sempre equivale al meglio” è doveroso pensare, agire e declinare che “il meno non corrisponde necessariamente al peggio” (in Sanità come in altri ambiti può valere il principio che il meno contiene il più).
Ad una cultura a tendenza massimizzante che ben risponde a logiche e profitti del mercato – mercato sanitario, nella fattispecie – si contrappone uno sforzo, una visione che possiamo ricondurre al minimizzante o minimalista, coerente, tra l’altro, con il concetto di qualità: fare le cose giuste ed appropriate al soggetto giusto ed appropriato, al momento giusto e farle bene sin dall’inizio.
Tendenza o meglio revisione minimalista supportata dalla “medicina delle evidenze” o come diceva il compianto collega Alessandro Liberati “Medicina delle prove di efficacia” volta a dare qualità e pertanto fiducia ai pazienti ed ancor più agli operatori sanitari attenti agli strali lanciati da istituzioni internazionali come la I.O.M. L’Institute Of Medicine negli anni ‘80 stimava che non più del 15- 20% delle azioni e delle procedure realizzate dai medici avevano un substrato documentato e basato su prove di efficacia: una vera e propria catastrofe basata sulla “assenza di evidenze!”.
Scontro titanico tra spinta massimalista del fare, supportata dai messaggi del mercato sanitario che crea “ere e mode” mediche del tipo ‘mordi e fuggi’, e strategie di tipo minimalista, orientato a dare risposte appropriate ai problemi e bisogni reali di salute della popolazione; il tutto nell’intento di educare ad una sorta di “immunizzazione metodologica” tale da ridurre il numero dei “suscettibili all’infezione propagandistica e cultural-corrente”.
E questa non è, come frettolosamente sostengono i detrattori, la fine della libertà clinica del medico, ma un cambio di paradigma che, coniugando l’arte medica del fare con le migliori evidenze scientifiche disponibili come risultanze di studi clinici, audit strutturati, revisioni sistematiche e metanalisi , aggiunge e non sottrae valore alla pratica professionale. La pratica medica, se poggia su un solido e rigoroso sapere e su altrettanto consolidato saper fare, non si trasformerà mai in casualità, libero arbitrio, malpractice o in errore medico.
In tale direzione, tra l’altro, si muove anche il movimento da poco strutturato di Slow Medicine che, mutuando lo slow food di Carlo Petrini, propone una medicina “sobria, rispettosa e giusta” lottando contro i cosiddetti sette veleni che ammorbano la cultura medica dominante e cioè:
1) ciò che è nuovo è sempre migliore; 2) tutte le procedure mediche sono efficaci e sicure; 3) lo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate permetterà di risolvere ogni problema di salute; 4) una medicina interventista migliora la qualità della vita; 5) scoprire una malattia prima che si manifestino i sintomi è sempre utile; 6) i fattori di rischio devono sempre essere controllati dai farmaci; 7) stati d’animo ed emozioni devono rientrare tra le condizioni messe sotto controllo farmacologico.
E’ una tendenza che avvalora ulteriormente quanto da noi igienisti sostenuto circa i determinati della promozione di salute o salutogenesi.
Oggi la comunità scientifica internazionale concorda che sullo stato di salute di una popolazione pesano percentualmente le seguenti componenti:
condizioni socio-economiche e stili di vita 40- 50 %; stato e condizioni ambientali 20- 30 %; eredità genetica 20- 30 % ; servizi sanitari 10- 15 %.
Vorrei riprendere quanto già affermato che non sempre il più equivale al meglio e che, di riflesso, non sempre il meno corrisponde al peggio, mutuando o come va di moda oggi “contaminando” tale minimalismo con altre espressioni artistiche del “fare dell’uomo”.
Immaginiamo ad esempio in architettura i tratti lineari ed essenziali del liberty versus la ridondanza del barocco o l’esasperante intriganza del gotico; nella pittura l’alta definizione dell’albero della vita di Gustav Klimt; ed ancora, nella letteratura leggiamo le tre righe del conterraneo modicano Salvatore Quasimodo nel “ed è subito sera”: ognuno sta solo sul cuore della terra\ trafitto da un raggio di sole:\ ed è subito sera.
Quante rime, sonetti, odi, poemi, romanzi volendo esprimere le stesse emozioni hanno avuto uguale sinteticità, forza ed efficacia?
Ma è sul linguaggio musicale definito “minimalismo” che vorrei focalizzare la mia e vostra attenzione.
Il minimalismo non è un linguaggio, una espressione esclusiva della musica moderna anche se il termine è stato utilizzato da Michael Nyman nel 1974. Nel suo volume “Experimental music, Cage and Beyond” Nyman spiega come applicare modelli minimalisti al linguaggio musicale puntando sulla essenza del suono originato dall’uso della scala cromatica o semitonata (con i suoi 13 suoni ascendenti e discendenti che procede per semitoni ed è formata da 7 suoni diatonici cioè due suoni consecutivi di nome diverso come per esempio Do e Re bemolle, e 5 suoni cromatici, cioè due suoni dello stesso nome di cui uno alterato come ad esempio Re diesis e Re). Utilizzare tale scala dava la possibilità di potersi muovere con autonomia sui gradi della medesima annullando così ogni differenza tra nota non alterata e nota alterata. Minimalismo quindi non come corrente né come vero e proprio movimento artistico ma come tecnica compositiva applicabile pertanto a tanti altri maestri della immortale musica del passato. Espressioni musicali e tecniche compositive di chiara impronta minimalista sono presenti già in J.S. Bach (pensiamo alla toccata e fuga in re minore), in Mozart (quartetto n. 19 – k 465 le dissonanze); in L.W. Beethoven (Sonata al chiaro di luna, Quinta sinfonia); in E. Grieg (Nel mattino e Nell’antro del re della montagna del Peer Gynt), in Satie (Gymnopedie); in M. Ravel (nel classico avvitamento del suo Bolero).
Philp Glass (che assieme a Terry Riley, Steve Reich, Mychael Nyman, La Monte Young rappresentano oggi i massimi esponenti dell’espressione musicale minimalista), ha orientato il proprio interesse alla meticolosa scomposizione delle scritture minime del suono applicando delle microvariazioni e sovrapposizioni con strutture spesso matematiche che assumono contemporaneamente una valenza ritmica e melodica.
Minimalismo musicale si può definire la “poetica della rinuncia”: rinunciare a continui cambiamenti di rotta negli intrecci compositivi, spesso tanto facili quanto inconcludenti, sicuramente di effetto ma molto poco rigorosi; rinunciare a confondere le idee con continui cambi e massimizzare il tutto: paradossalmente il processo compositivo minimalista consiste e si traduce in una massimizzazione del materiale.
Pensiamo un attimo di trasporre questi concetti, questa tendenza, alla cultura e pratica medica ed alle stesse “organizzazioni sanitarie”. Ritengo che potrebbe innescarsi una virtuosa spirale di efficacia, efficienza, economicità di gestione ed etica economica: “sana razionalizzazione versus l’insano razionamento da spending review”.
Le storiche, gloriose e snelle sette note con le appropriate alterazioni, se sapientemente configurate e cesellate nello stilizzato pentagramma sono state in grado di offrire capolavori che a tutt’oggi resistono alle “revisioni” di critici e musicologi. Dimostrazione, ex post, di come l’essenza, l’essenziale (nel significante di necessario ed efficace), può e deve essere un valore fondante anche nella medicina e nel comportamento di ogni medico.
Una riflessione su Covid e “less is more”
L’attuale stato di pandemia da virus corona ci induce a riflessioni e revisioni non solo sui nostri comportamenti consolidati di vita quotidiana e lavorativa ma anche sulle risposte tecnico-scientifiche ed organizzative attuate per la gestione ed il governo della pandemia medesima. La interruzione della sequenza contagio-infezione-malattia, attuabile per le malattie infettivo-diffusive a sintomatologia ben definita (vaiolo, peste, morbillo, etc.) non è praticabile nelle infezioni a prevalente diffusione aerea e sintomatologia non ben definita come ad esempio per i virus respiratori e, nello specifico, per i virus corona. È pertanto doveroso e realistico scendere qualche gradino del “rango” prevenzione primaria (rischio zero) e riorientare gli interventi e le risorse per graduare e scaglionare quantitativamente nel tempo la popolazione generale altamente suscettibile alla sequenza contagio-infezione-malattia da virus corona così come avviene per ogni agente infettivo nuovo. La sequenza contagio-infezione-malattia nelle malattie infettivo-diffusive non è obbligata, anche se altamente probabile nelle prime fasi di comparsa di un nuovo virus e, si presume, meno probabile nelle fasi successive in assenza di conversione e\o di slittamento antigenico dell’agente infettante; il contagio può pertanto non evolvere in infezione e l’infezione non trasformarsi in malattia.
Riuscire a ridurre la pressione e l’impatto di soggetti ammalati sugli ospedali e specificamente sulle terapie intensive, strutture ad elevato consumo di risorse e pertanto numericamente limitate, doveva e deve essere l’obiettivo strategico da perseguire per la sostenibilità dei sistemi sanitari dei vari paesi. La strategia di prevenzione/contenimento del contagio adottata, oltre al collaudato utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) come mascherine e guanti, è evidence-based nel contesto di altri interventi: è indispensabile la puntuale e corretta sanificazione delle mani e delle superfici di più comune, diffuso e ripetitivo utilizzo tramite sostanze ad azione disinfettante; di converso il rituale delle nebulose nebulizzazioni ambientali, di elevato impatto scenografico, non è associato ad altrettante sicure evidenze di efficacia. Altrettanto utile è il mantenimento di distanze di sicurezza, un provvedimento già attuato sia per la pandemia spagnola del 1918\19 ed ancor prima nelle tende da campo delle legioni romane negli eventi delle varie “pestilenze”. L’applicazione del distanziamento sociale fino ad arrivare alla totale chiusura dei luoghi di umano contatto è una misura a mio avviso necessaria solo se in presenza di comportamenti irresponsabili della popolazione generale e che però non aiuta i singoli cittadini a comportamenti maturi, responsabili e soprattutto duraturi. Si è pertanto perseguita una impronta “massimalista” con il blocco pressoché totale delle attività relazionali, sociali e lavorative. Gli effetti sulla qualità di vita nelle varie fasce di età sono stati spesso deprimenti ai due estremi del ciclo vitale, bambini – anziani, ed ancor più devastanti per le fasce intermedie proprie del ciclo lavorativo. Tali effetti sono oggetto di diffusa e travagliata valutazione da parte di sociologi, psicologi, economisti oltre che medici igienisti, epidemiologi, infettivologi e da parte dei politici.
Poteva e\o potrebbe essere proponibile un approccio orientato a tendenze “minimaliste”, certamente non negazioniste, e coerenti con le migliore evidenze scientifiche disponibili emerse in questa fase pandemica? Nella prima parte di queste mie riflessioni accennavo a come non sempre ‘fare di più’ equivalga a ‘fare meglio’ e, di converso, fare di meno non sempre comporta fare peggio. L’intuizione e la sfida che Ludwig Mies ci ha lanciato e lasciato del “less is more” può trovare applicazione nella emergenza da virus corona specialmente in questa seconda fase che potrebbe evolvere in una ripresa della pandemia? Quale strategia porre in essere, riconducibile al “meno che contiene il meglio” per i sistemi sanitari?
Ricondurre a “sistema” l’organizzazione sanitaria ha rappresentato e costituisce certamente un valore alto ed insostituibile stante la complessità delle relazioni bisogno-domanda-offerta di salute, ancor più stressata nelle emergenze. Nel “meno che contiene il più” si centra l’attenzione sul meglio che non equivale a fare il meno possibile ma la cosa giusta, al momento giusto, e nel giusto contesto. Ritorna alla nostra memoria il richiamo satirico di Orazio “est modus in rebus; sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum” (c’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là ed al di qua dei quali non può esservi giusto).
Come dispiegare i nodi, gli intrecci e governare la complessità manifestatasi (cum plexum, con nodi come da etimo) e come sistematizzare, mettere assieme (sun istemi) i variegati interventi pianificati e programmati?
Come tradurre operativamente tutto ciò, quali nuovi strumenti utilizzare e quali, tra quelli già utilizzati mantenere?
L’analisi retrospettiva denota come le attenzioni e le attività sono state orientate sul più anziché sul meglio, sul salvare la vita dei soggetti con malattia, un numero dei quali portatori di co-morbidità gravi e preesistenti, con effetto cumulativo e necessariamente ad imbuto per l’impossibilità di estendere all’ennesimo la domanda\offerta di terapie intensive. A questo atteggiamento, altamente basato sulla tecnologia, si è contrapposto un approccio comunicativo pressoché inesistente con il paziente, se cosciente, e con i familiari: il dramma si è così consumato con scenari di umana tragedia resi visibili dai numerosi automezzi addetti al trasporto delle (anonime) salme.
La fine dell’emergenza con possibile futuro ripresentarsi della stessa, deviata e confusa dalle patologie proprie della stagione invernale, non può tradursi esclusivamente nel tornare a fare ciò che è stato già fatto ma richiede un approcciarsi ad interventi mirati, nella consapevolezza che è avvenuta una trasformazione socio culturale nella popolazione a livello mondiale. La trasformazione ed il ritorno a condizioni di quasi normalità dovrà prevedere, dove non attuata, e rafforzare, dove già applicata, una organizzazione di cure, un “setting assistenziale” concentrato non solo su ospedali e terapie intensive, ma centrato su cure ed assistenza territoriale, domiciliare ed ambulatoriale. Non è sostenibile per le organizzazioni sanitarie dei vari paesi a livello mondiale continuare ad investire esclusivamente in risorse sanitarie technology-based ad elevato costo ma con un livello non altrettanto elevato di efficacia/efficienza a medio e lungo termine: è necessario attivare e sviluppare i servizi orientati alla persona, all’assistenza a domicilio del soggetto ammalato, o negli ambulatori di più immediato e facile accesso, con possibilità di attuare cure graduate, e non del “tutto o nulla”, potenziando modalità operative riconducibili alle pratiche sanitarie, collaudate soprattutto nelle comunità non metropolitane, della “ medicina incrementale”.
Si rafforza sempre più la riproposizione di Atul Gawande del “medico che ti salva la vita”, che non è il chirurgo o l’interventista bensì il medico che ha con sé pochi attrezzi e poca tecnologia ma molte conoscenze. Il rapporto costo/efficacia, costo/benefici e costo/opportunità di tale modello assistenziale, adattato nei vari contesti culturali, oltre che corrispondere a sperimentate prove di evidenze contribuisce anche ad assicurare la governance del sistema sanitario e, soprattutto, la sua “eticità”.
In ultimo vorrei riproporre uno degli strumenti più semplici ma efficaci utilizzati nei sistemi di gestione della qualità applicabili al less is more e riconducibile a Vilpredo Pareto, ingegnere, sociologo ed economista italiano vissuto nella seconda metà dell’ottocento ed agli inizi del novecento. Il suo “diagramma”, scolasticamente conosciuto come legge dell’80/20 (il 20% delle cause sono responsabili dell’80% dei problemi), potrà essere di grande utilità per la sua semplicità, efficacia e praticità : focalizzare l’attenzione e gli interventi su un numero limitato di fattori che cumulativamente causano la gran parte degli effetti; la restante quota, che potrebbe assorbire elevate risorse ed impegno con risultati molto contenuti o residuali, sarà processata, valutata e validata successivamente e sapientemente. In quest’ottica pensiamo alle attività produttivo\lavorative a carattere artigianale tipiche della nostra realtà produttiva che sono state totalmente bloccate; sarebbe senz’altro possibile mantenere attive le miriadi puntiformi attività, spesso a carattere unifamiliare, non solo di beni (dalla edilizia alla metallurgia) ma anche di servizi (supporto agli anziani, ai disabili, igiene domestica ed anche buona parte dei servizi sanitari per soggetti affetti da cronicità e dei servizi amministrativi per il cittadino). Quanto sopra necessita certamente di un investimento in formazione e di corrette informazioni con messaggi univoci ed ufficiali non deviati da schizofrenici talk show. Ritengo che l’attuazione di tali misure possa comportare una migliore qualità di vita, minore povertà e dipendenza assistenziale e soprattutto un atteggiamento più maturo e responsabile da parte della popolazione generale. La continuità produttivo lavorativa è rimasta operativa solo per la GDO, la Grande Distribuzione Organizzata, afferente al settore agro-alimentare per la soddisfazione del bisogno primario di alimentarsi con la produzione da una parte ed il trasporto/distribuzione puntuale dall’altra.
Personalmente, come medico del lavoro, sono stato partecipe, con successo collettivo, delle attività poste in essere da aziende di produzione e trasformazione agro-alimentare e delle logistiche connesse ai trasporti verso il Nord Italia, comprese le “zone rosse”. Le attenzioni e gli accorgimenti attuati in tale settore potevano essere ribaltati in altri comparti lavorativi con altrettanto successo e minimizzazione del rischio?
Vorrei chiudere queste mie riflessioni ripensando come ogni secolo è stato ricordato, oltre che per le scoperte, le invenzioni e le espressioni artistiche, anche per gli eventi calamitosi e/o catastrofici quali i terremoti e le guerre ed anche per le malattie.
Così il Seicento ci rimanda alla peste ed alle struggenti descrizioni del Manzoni (dalla Cecilia che “scendea dalla soglia d’uno di quegli usci” ai carri dei monatti addetti all’allontanamento dei corpi senza vita); la peste, cioè la peggiore malattia (peius, sempre da etimo), fu sconfitta senza conoscere il batterio “pasteurella” con interventi mirati, e non indiscriminati, bloccando o contenendo le modalità diffusive connesse ai ratti ed all’igiene delle navi con le specifiche modalità di attracco negli innumerevoli porti commerciali dei vari paesi.
Il Settecento è il secolo del vaiolo e della rivoluzione attuata da Edward Jenner con l’avvio “ad arte” della vaccinazione anche in assenza di conoscenze microbiologiche sul virus responsabile della malattia; l’arte del vaccinare, oggi basata anche sulla ingegneria genetica e molecolare, ha portato comunque alla sua scomparsa, alla “eradicazione” dall’intero pianeta terrestre nel 1977.
L’Ottocento risuona possente nel melodramma della Traviata nell’aria “Addio del passato” con Violetta affetta dalla malattia da tubercoli, la tubercolosi, che sottraeva agli affetti familiari tante giovani vite; ed ancora nella tenerezza dell’aria “che gelida gelida manina” di Mimì della pucciniana Bohème consunta dalla tisi; anche in questo caso, in assenza di terapie specifiche contro il bacillo di Koch, molto si riuscì a fare migliorando le condizioni di vita individuali (alimentazione in primo luogo) e ambientali (densità abitativa familiare) e collettiva (grandi aule scolastiche, ospedali a padiglioni con vaste sale di degenza, spazi collettivi come mercati, stazioni ferroviarie e palazzi di giustizia espansi all’inverosimile), la “con-vivenza” con il soggetto ammalato ed untore divenne non una eccezione ma la norma, cioè il vissuto trans-formato;
Il Novecento, secolo della modernità, viene oscurato oltre che dalle pandemie influenzali della Spagnola (1918-19), che non fu clemente nei confronti dei soldati fortunosamente scampati alla Grande Guerra, e dell’Asiatica (1968-69), che causarono milioni di morti specie nell’era pre-antibiotica, dall’HIV; l’Aids dilaga subdolamente ed inconsapevolmente a macchia d’olio nei paesi non sviluppati e si diffonde in maniera puntiforme e consapevole nei paesi sviluppati connesso a pratiche, comportamenti ed abitudini di vita individuali e collettive.
Gli anni 2000, era del post moderno e dell’annullamento dei confini temporali e spaziali, saranno ricordati ed incoronati come il secolo da virus corona nelle sue molteplici espressioni (Sars, Covid)? Affidiamoci ancora, minimalisticamente, alle parole del Manzoni; “ai posteri l’ardua sentenza”.
Vorrei segnalare alcuni brani per l’ascolto e, per chi lo volesse, per la lettura della partitura, dove è evidente la “essenzialità” delle sette note nell’impianto musicale e nel costrutto linguistico.
J.S. Bach: Toccata e fuga in re minore BWV 565;
Ludwig Van Beethoven: Sonata al chiaro di luna Op. 27 n.2;
Edward Grieg: Peer Gynt Suite n 1 Op 46 Il mattino;
Maurice Ravel: Bolero;
Mikis Theodorakis: Zorba il Greco, Sirtaki;
Michael Nyman: Lezioni di piano;
Philp Glass: Glassworks, Closing.
Cosmacini Giorgio; Concetti di salute e malattia fino al tempo del coronavirus Ediz Pantarei 2020;
Glass Philip; La mia musica; Edizioni Socrates 1993;
Gilbert Welch; Sovradiagnosi; Pernsiero Scientifico Editore 2013
Iacono C.; Corso di teoria musicale; Edizioni Carrara 2005;
Iandolo C., Hanau C.; Etica ed Economia nella Azienda Sanità; Franco Angeli 1994
Liberati A.; La medicina delle prove di efficacia; Pensiero Scientifico Editore 1997;
Lown B.; L’arte perduta di guarire; Garzanti 1997;
Volpi R.; L’amara medicina; Mondadori 2008;