Femminicidio, violenza domestica e violenza di genere: tre “emergenze sociali” di estrema attualità
FULVIO FRATI
Femminicidio, violenza domestica e violenza di genere costituiscono oggi tre fenomeni sociali di gravissima ed estrema attualità sia in Italia che in molti altri Paesi di ogni continente, tali da assurgere ormai al ruolo di vere e proprie “emergenze sociali”. Sono pertanto stati oggetto in questi ultimi decenni di svariati ed approfonditi studi sia di matrice sociologica e psicosociale da un lato sia di impostazione psicologico-clinica e psicoanalitica dall’altro. In questo lavoro l’Autore cerca di sintetizzare alcuni tra i principali risultati prodotti al riguardo da entrambi questi approcci, al fine di offrirne una sintesi potenzialmente utile per cercare di contrastare, in modo tendenzialmente più efficace di quanto non sia stato fatto sinora, la permanenza di tali comportamenti maschili all’interno delle nostre future comunità
Introduzione
La parola “femminicidio”, già utilizzata nel XIX secolo in ambito anglosassone per definire genericamente le azioni particolarmente violente, sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico, attuate da un individuo di genere maschile nei confronti di una donna, ha acquisito in questi ultimi decenni un significato molto più specifico e preciso. Essa è stata infatti ripresa nel 1990 da Jane Caputi e Diana E. H. Russell con lo scopo di definire ed evidenziare non la generica uccisione o tentata uccisione di una qualunque persona di genere femminile, bensì l’aggressione a scopo di omicidio e l’eventuale uccisione di una ben specifica donna da parte di un uomo «per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso della donna» (Caputi & Russell, 1990). Da allora esso costituisce un sottoinsieme preciso, all’interno della totalità dei casi di omicidio o di tentato omicidio che hanno come vittima una persona di genere femminile, in quanto definisce un tipo di crimine che si caratterizza non solo per il genere femminile delle vittime, ma anche e soprattutto per i motivi psicologici individuali e sociali, o per essere ancora più precisi sia emotivi che culturali, che ne sono alla base.
Del resto, fino al 1981 il nostro Codice penale ha mantenuto al proprio interno il cosiddetto “delitto d’onore”, attraverso l’articolo 587 che stabiliva pene irrisorie (da tre a sette anni) nei confronti di chi uccideva il coniuge o un altro parente stretto che avesse instaurato una “illegittima relazione carnale”. Si tratta, come sottolinea al riguardo Ana Luisa Botto, di un «esempio illuminante della diffusione di un atteggiamento culturale assolutorio o almeno giustificativo da cui non è immediato affrancarsi» (Botto, 2016). Lo stesso “atteggiamento culturale assolutorio” di cui sino a pochi anni prima era stato un altro lampante esempio il cosiddetto “matrimonio riparatore”, che metteva per sempre al riparo da conseguenze penali il reo di uno stupro o di un altro reato sessuale nei confronti di una donna che accettasse, allo scopo socialmente e culturalmente determinato di “riacquistare il proprio onore perduto” (chiaro esempio di un atteggiamento mentale che di fatto “criminalizzava la vittima” e tendeva, all’opposto, ad una rapida assoluzione del suo carnefice), la proposta di matrimonio a lei avanzata da parte del suo stupratore successivamente ai crimini commessi verso di lei.
Proprio per l’importanza dei fattori culturali e sociali nel Diritto e nelle Scienze Forensi e Criminologiche, pertanto, l’utilizzo di un termine specifico per definire una forma di delitto con peculiari caratteristiche risulta particolarmente utile ed opportuno proprio quando tale reato, per ragioni sociali o culturali, tende ad essere tollerato o giustificato, oppure riesce a nascondersi all’interno di gruppi di reati più vasti rendendosi di fatto socialmente “invisibile” risultando perciò estremamente difficile da combattere e da estirpare. Come ha recentemente spiegato, al riguardo, la psicologa e psicoterapeuta italiana Giuliana Mussa Jacob, «Anche trovare le parole giuste è utile per far emergere dall’invisibilità e dal silenzio comportamenti violenti così connaturati con la tradizione, i valori dominanti e persino le norme, da passare quasi inosservati» (Jacob, 2016).
Possiamo quindi definire ora ancora più precisamente il femminicidio, utilizzando la descrizione che di tale crimine hanno fornito la stessa Diana E. H. Russell e Jill Radford nel loro libro del 1992 Femicide. The Politics of woman killing, nel modo seguente: «Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte» (Radford & Russell, 1992). Il femminicidio, in altri termini, può essere considerato come un fenomeno specifico all’interno del più vasto insieme della cosiddetta “violenza domestica di genere” (che, a sua volta, può essere considerato come un significativo sottoinsieme dell’ancora più vasto gruppo di comportamenti noti come “violenza domestica”): esso costituisce un tipo di delitto che si origina sulla base di reazioni emotive maschili primitive, arcaiche, barbare. Modalità che ancor oggi, anche nel nostro Paese ma certamente non solo in Italia, continuano evidentemente a fare estremamente fatica a lasciare spazio a relazioni più civili, più accettabili, almeno sufficientemente rispettose della propria partner in quanto essere umano.
I dati statistici sul fenomeno del femminicidio in Italia
Secondo i dati statistici ufficiali aggiornati al 31 Dicembre 2018 su questo specifico reato (successivamente a questa data sono a tutt’oggi disponibili solo dati ufficiosi e parziali), dal 2008 al 2018 sono state uccise ogni anno in Italia, per motivi che fanno sicuramente registrare tali eventi sotto la categoria dei femminicidi, dalle 110 a oltre 130 donne. Nel periodo in questione si è quindi registrato nel nostro Paese, in media, un femminicidio ogni due/tre giorni: nel 2018, in particolare, le vittime di femminicidio in Italia sono state 115.
Nella tabella 1 si evidenza l’incidenza delle donne italiane uccise per femminicidio nel 2018 in Italia, rispetto al totale generale e rispetto a quelle straniere.
Il totale infatti risulta 115 di cui 84 italiane pari al 73,04%, mentre sono 30 quelle straniere pari al 26,09% (per una vittima la nazionalità non è stata accertata con certezza).
Nella tabella 2 si entra maggiormente nel dettaglio del fenomeno, e si può quindi evincere che il 26,09% di donne straniere si suddivide in donne che provengono dall’Est Europa, 13,04%, dall’America Latina, 5,22%, dall’Asia, 3,48%, e dall’Africa 4,35%.
Come si può osservare sia dalla tabella sopra che da quella sotto esiste un dato non definito da cui si può intendere la drammaticità derivante dall’assenza di dati affidabili che rilevino il fenomeno nella sua interezza; ad oggi appare evidente che vi siano situazioni marginali, opache, come ad esempio quelle legate a comunità particolarmente chiuse, o nel caso di vittime di tratta.
Il problema del reperimento dei dati, ad esempio quelli dell’anno 2018, si evidenzia maggiormente se mettiamo a confronto diverse fonti come, ad esempio, il rapporto Eures 2019, il report finale del Gruppo di lavoro sul femminicidio della Casa delle donne per non subire violenza, i dati Istat ecc.
Infatti alcune fonti citano 115 vittime, mentre altre 142, ed è evidente che all’interno di questa forbice si celino, come già evidenziato sopra, vicende dagli aspetti ancora oscuri ma comunque sempre drammatici.
Dal confronto con l’anno precedente si rileva un aumento delle vittime italiane, dell’Est Europa e dell’America Latina, mentre rimane invariato il dato che riguarda l’Africa.
R
ispetto al 2017 si ha la conferma del trend in riferimento alle vittime di età compresa fra i 46 e i 60 anni, seguite da quelle fra i 36 e i 45 anni (Grafco 1).
Per quanto riguarda i moventi, occorre incrociare dati che derivano da prospettive differenti. Ad esempio, se si analizza la relazione intercorsa fra l’autore del femminicidio e la donna vittima, si desume che ci sono chiare evidenze che mostrano che le donne maggiormente coinvolte nel fenomeno sono quelle inserite in, o appena uscite da, una relazione, di convivenza o matrimonio nella quale da molto tempo si verificavano episodi di violenza domestica: violenza di natura fisica, psicologica, economica, ecc.
Per quanto riguarda la fascia d’età superiore ai 75 anni, la causa scatenante è il più delle volte una malattia della donna, legata all’incapacità da parte del partner di farsi carico di quelli che sono i compiti di cura socialmente e culturalmente affidati, per tradizione, alla donna.
Tuttavia, secondo i dati Onu, l’Italia sarebbe una delle nazioni europee non particolarmente pericolosa per le donne: moltissimi Paesi europei sembrerebbero infatti presentare un dato relativo agli omicidi delle donne superiore del 30% e oltre a quello italiano. Un esempio è quanto si verifica in Spagna, dove gli omicidi delle donne nel 2009 sono stati il 43% degli omicidi totali, o il trend della Germania dove in anni recenti essi hanno raggiunto addirittura il 47%.
Secondo i dati Europei riferiti al 2016, i Paesi in cui è maggiore l’incidenza dei femminicidi tra la popolazione – come illustrato dal grafico 2 – sarebbero nell’ordine la Lettonia, la Lituania, la Francia e l’Ungheria, mentre in tale elenco l’Italia figurerebbe al terzultimo posto risultando peggiore solo rispetto alla Grecia e a Cipro.
Fonte: Eurostat.
Metadati: https://ec.europa.eu/eurostat/cache/metadata/en/crim_esms.htm
(a) Anno 2016
Questo “bias” tra la percezione sociale della gravità del fenomeno e quanto apparirebbe invece dai dati statistici più diffusi si spiega almeno in parte col fatto per cui, a parte qualche sito Internet che aggiorna i dati quasi in tempo reale, molti altri siti registrano i dati del fenomeno con ritardi significativi, a volte estremamente ragguardevoli. Infatti i dati reperibili su molti siti web non sono quasi mai dati come certi, e spesse volte arrivano in ritardo impiegando anche più di un anno.
È quindi chiaro che rispetto al femminicidio e alla violenza domestica di genere non va mai “abbassata la guardia” perché il fenomeno potrebbe poi emergere con dati ancor più allarmanti. Pare pertanto evidente che siamo di fronte a un fenomeno sociale che risulta, come si suol dire, “mal descritto dai dati”.
In ogni caso, se analizziamo i dati storici del quinquennio 2012- 2017, possiamo rilevare che, su un totale di 417 sentenze relative ad omicidi di donne registratesi in Italia in questi ultimi cinque anni, 355 sono stati valutati dai giudici come femminicidi: essi sono stati quindi l’85% del totale degli omicidi agiti nei confronti delle donne. Una percentuale che non ha bisogno di commenti, che si descrive da sola e che è, purtroppo, tragicamente inequivocabile. Dal 2012 al 2017, e quindi presumibilmente ancora oggi stesso, oltre quattro donne su cinque di tutte quelle che vengono uccise in Italia non lo sono per motivi generici o casuali, bensì per una precisa e sottostante “forma mentis” di chi compie tale crimine legata ad una visione del rapporto tra i sessi sbilanciata, rozza ed ormai sicuramente qualificabile come assolutamente incivile ed inaccettabile, per la quale il maschio considera la donna come un oggetto che deve essere di propria esclusiva proprietà e di cui si sente conseguentemente in diritto di determinare e limitare, anche sino a distruggerle, l’autonomia, l’indipendenza, l’identità e addirittura la stessa vita.
Inoltre, secondo un’analisi più vasta che dal 2007 al 2016 ha preso in esame i comportamenti legati alla violenza di genere in senso più ampio, e non solo quella che ha portato la vittima di tali violenze alla morte, quasi sette milioni di donne italiane della nostra odierna società hanno sicuramente subìto nel corso della loro vita qualche significativa forma di abuso fisico, sessuale o psicologico.
La normativa italiana ed internazionale sui fenomeni della violenza di genere e del femminicidio
Nell’ottobre 2013 il Senato della Repubblica Italiana ha approvato la Legge 27 giugno 2013 n. 7 contro lo stalking (“persecuzione”) e il femminicidio. Tale normativa rientra nel quadro delineato dalla Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. L’elemento di novità di questa Convenzione, rispetto alla normativa internazionale ad essa preesistente, è rappresentato dal riconoscimento della violenza sulle donne come forma di discriminazione e di violazione dei diritti umani.
Questa Legge italiana, che come si è detto rientra nell’ambito di quanto sancito dalla Convenzione di Istanbul che il nostro Paese ha riconosciuto e sottoscritto, si basa soprattutto sull’inasprimento delle pene e delle misure cautelari. È stato infatti finalmente introdotto, almeno come possibilità esplicita, l’arresto in flagranza per i reati di maltrattamento in famiglia e di stalking: inoltre, la polizia giudiziaria può ora disporre l’allontanamento del perpetratore dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Gli aggressori allontanati dall’abitazione familiare potranno essere controllati attraverso un braccialetto elettronico e, in caso di denuncia per presunto stalking, possono essere disposte intercettazioni telefoniche.
Il nuovo testo prevede anche l’inasprimento delle pene quando la violenza è commessa contro una persona con cui si ha una relazione, e non soltanto se si convive oppure si ha un vincolo (precedente o attuale) di matrimonio. Altre aggravanti sono inoltre previste quando i maltrattamenti avvengono in presenza di minori e contro le donne incinte.
Tuttavia, nonostante questa importante Legge approvata nel 2013, l’ultima analisi parziale dei dati dell’ISTAT e del Ministero della Giustizia (Audizione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica Giorgio Alleva - ISTAT, Roma, 27 settembre 2017) ha mostrato cifre che ci evidenziano come quello della violenza di genere sia nel nostro Paese un fenomeno che non si arresta e neppure retrocede. Dalle violenze domestiche allo stalking, dallo stupro all’insulto verbale, la vita delle donne è ancor oggi, anche in Italia, significativamente condizionata ogni giorno da inaccettabili violazioni della loro più intima sfera personale.
Infatti non vi sono solo l’omicidio o il tentato omicidio: la violenza verso le donne è anche nel nostro Paese un fenomeno estremamente vasto e differenziato, tanto che tra le donne italiane il 20.2% ha subito almeno una volta nel corso della propria vita qualche significativa forma di violenza fisica, il 21% ha subito molestie sessuali, ed il 5,4% è stata vittima di forme più gravi di violenza sessuale come ad esempio lo stupro (circa 652 mila) o il tentato stupro (circa 746 mila).
Molto frequenti anche i casi di violenza psicologica: circa 3 milioni 466 mila donne italiane di oggi hanno subito nel corso della propria vita atti persecutori o stalking, una percentuale pari al 16.1% delle donne italiane. Tra di loro, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner, 2 milioni 229 mila da persone diverse dall’ex partner.
Circa un decimo delle donne italiane, peraltro, ha subìto molestie o violenze sessuali prima dei 16 anni, molte di loro più di una volta e spesso ripetutamente. Le violenze in età adolescenziale sono ricercabili soprattutto all’interno delle stesse famiglie delle vittime: alte percentuali più alte degli autori di violenze sessuali su vittime minori di 16 anni si riscontrano infatti tra i loro parenti. Inoltre, il 30.6% delle ragazze che ha subito violenza da un parente è stata costretta ad avere un rapporto sessuale non consensuale: il 7.7% da uno zio, il 7.1% dal padre, il 4.4% da un nonno, il 2.7% da un componente della fratria e percentuali più basse da altre figure parentali.
La maggior parte degli abusi subìti, in particolare quelli avvenuti ad opera dei famigliari, rimangono per molti anni un segreto che le vittime non riescono a confidare, per paura o vergogna. Il 56.3% delle vittime non trova infatti un confidente a cui rivolgersi, con il picco di 80.8% di coloro che hanno subito abusi da fratelli, sorelle, fratellastri e sorellastre che non vengono mai o quasi mai confessati.
Solo il 26.4% delle donne vittime di violenza riesce in tempi rapidi (e cioè utili ai fini di una denuncia, che può essere presentata in genere entro sei mesi dal fatto-reato) a confidarsi con un familiare, alla ricerca di conforto e aiuto. Altre volte risultano invece gli amici e i vicini di casa le persone a cui le vittime riescono a rivolgersi, con una percentuale dell’11.5% quando gli autori delle violenze sono all’interno della cerchia parentale; quando gli autori delle violenze sono altri amici o conoscenti, le confidenze ad amici e vicini di casa si alzano al 24%.
Pochissime vittime si sono rivolte in prima istanza alle istituzioni o presso servizi specializzati, e solo una percentuale dello 0.3% risulta essersi immediatamente rivolta ad un avvocato o alle Forze dell’Ordine. Tra le vittime che non si sono rapidamente rivolte a istituzioni o a servizi specializzati, all’incirca una su due afferma di non averlo fatto perché ha gestito la situazione da sola.
Tutti questi dati, a mio avviso, mostrano quanto sia ancora diffuso nell’attuale realtà del nostro Paese un atteggiamento mentale che vede la donna non come una “persona” portatrice di autonomi ed insindacabili diritti ma, al contrario, come una sorta di “oggetto al servizio del maschio”, qualcosa da potersi quindi permettere di tentare di asservire ai propri desideri ed alla propria volontà (al limite con l’uso della forza e della violenza fisica oltre che con altre illegittime forme di controllo sociale quali la calunnia, la diffamazione, il mobbing e lo stalking anche attraverso i moderni mezzi di comunicazione inclusi quelli telematici ed in particolare i social networks).
Il tragico estremo di tutto questo, come si è detto, è rappresentato dal femminicidio, che dimostra non solo di essere ancora un reato troppo diffuso numericamente, ma soprattutto la punta più estrema e grave di un problema sociale di rapporto del genere maschile verso quello femminile che necessita quindi di una risposta non solo giudiziaria, ma anche, e forse soprattutto, culturale, psicologica ed educativa.
L’analisi statistica del femminicidio in Italia secondo i più recenti dati al momento disponibili
In Italia, secondo i dati relativi all’anno 2015, il femminicidio si è più sviluppato al Nord seguito dal Centro, dal Sud e dalle Isole. Nella maggior parte dei casi l’autore dell’omicidio è il partner ed il luogo del delitto è la casa, seguita dalla strada. Nel 74.5 % dei casi l’autore del delitto è italiano, mentre nel 25.5 % è straniero. Nel 77.6 % dei casi la vittima del delitto è italiana, mentre nel 22.4 % è straniera.
La ricerca di indipendenza della donna, unita all’incapacità dell’uomo di gestire la separazione, costituisce un fortissimo fattore di rischio in quanto risulta presente nel 93.5% dei casi. Un altro elemento certamente non trascurabile è poi quello della storia di violenza della coppia: il 21.4% riporta la presenza di maltrattamenti perpetrati in precedenza dall’autore alla vittima, e denunciate nel 44% dei casi.
Tali dati smentiscono molti stereotipi, soprattutto quelli tendenti a considerare la violenza di genere come legata soprattutto ad un contesto sociale disagiato, straniero, slegato dalla nostra cultura ed estraneo alle mura domestiche delle famiglie “normali”. È infatti dentro case apparentemente del tutto normali che si consumano la maggior parte di questi crimini, spesso dopo anni di violenze fisiche e psicologiche, spesso inascoltate ma altre volte denunciate, senza un reale sistema di protezione efficace per proteggere efficacemente quelle che poi diventeranno vittime.
Nel 55.8% dei casi tra autore e vittima esiste una relazione sentimentale, in atto o pregressa. Nel 75% dei casi il femminicidio avviene in ambito familiare: nel 63.8% dei casi si evidenzia che la vittima e l’autore erano coniugi o conviventi, nel 12% erano fidanzati e il 24% aveva intrattenuto una relazione sentimentale terminata prima dell’omicidio.
Gli autori di femminicidi nella maggior parte dei casi appartengono ad una fascia di età compresa tra i 31 e i 40 anni, seguita da quella che comprende un’età tra i 41 e i 50. Le vittime invece sono più giovani: a morire per mano dei propri compagni sono per lo più ragazze tra i 18 e i 30 anni. È però da evidenziare come anche in Italia sia in crescita il fenomeno del femminicidio verso donne anziane, stanno infatti aumentando gli omicidi di donne di età compresa tra i 71 e gli 80 anni.
Secondo le analisi condotte dall’ Istat in collaborazione con il Ministero della Giustizia, le più frequenti tipologie di femminicidio si verificano mediante dirette colluttazioni “corpo a corpo” dove, spesso, l’assassino arriva a sfogare una rabbia inaudita. L’arma più utilizzata è il coltello, sia da caccia o da campeggio che da cucina, che viene utilizzato nel 40.2 % dei casi: quasi sempre, nei femminicidi che si realizzano con questo tipo di arma, le donne vengono colpite ripetutamente, raramente con solo uno o due colpi mortali. Nel 15.5% dei casi la donna viene uccisa con altri oggetti di uso comune: martelli, bastoni, picconi, rastrelli, utilizzati come corpi contundenti con brutalità fino alle estreme conseguenze. Nel 18% dei casi l’omicidio avviene tramite strangolamento; le armi da fuoco vengono invece utilizzate nel 12.8% dei casi. Nel 9% dei casi non viene impiegata alcuna arma ed il femminicidio avviene mediante percosse (soprattutto pugni e calci). Nel 3.2% dei casi l’omicidio avviene dando fuoco alla vittima dopo aver versato su di essa liquido infiammabile, e ciò appare come il segno inequivocabile di una rabbia non solo omicida, ma tendente anche al totale annichilimento, alla massima distruzione possibile, della vittima e del suo intero corpo. Quasi sempre la causa è legata a gelosia e istinto di possesso nei confronti della donna che viene uccisa; spesso, inoltre, alla base dei dissidi ci sono anche motivi economici. A volte ci sono episodi dove l’uomo uccide la donna perché preferisce la sua morte al mantenimento della relazione o per timore dell’eventuale scoperta di adulterio.
E poi, infine, c’è il dato non certamente trascurabile sul suicidio o sul tentato suicidio del killer: in media, negli ultimi cinque anni in Italia, nel 31.3% dei femminicidi l’assassino si è poi tolto la vita, mentre nel 9% dei casi ci ha provato senza riuscirci.
Tutti questi elementi richiedono un’attenta riflessione. La loro interpretazione e discussione può partire sia da una prospettiva sociologica, storica e culturale, oppure da una prospettiva psicologica, più legata alle vicende affettive ed emotive delle persone coinvolte ma che non può, neppure essa, prescindere del tutto dalle influenze storiche e culturali. Inoltre occorre, se possibile, che queste riflessioni risultino utili per costruire strategie di contrasto efficaci per questo genere di violenza, la cosiddetta “violenza domestica di genere”.
L’analisi sociale e storica sui fenomeni della violenza di genere e del femminicidio
La riflessione sociale e storica sulla violenza domestica di genere e sul femminicidio, che di essa costituisce la più drammatica espressione, sembra individuare oggi la principale causa sociale di tali fenomeni nella tendenza maschile a non considerare le donne come individui liberi e con il diritto di autodeterminarsi, ma come una sorta di “proprietà”. L’aumento di casi di violenza e femminicidio viene di conseguenza sempre più associato al fatto che in questo momento storico stiamo vivendo una fase, iniziata da tempo ma probabilmente non ancora del tutto compiuta, di mutamento dell’identità femminile, che va verso l’emancipazione e la libertà e che viene perciò vissuta dagli uomini come una minaccia al proprio ruolo storico di supremazia e di dominio.
Per tali ragioni, una parte significativa degli studi al riguardo condotti in questi ultimi decenni sono di tipo sociologico e socio-psicologico, più che di tipo psicologico-clinico: essi hanno individuato «le principali configurazioni idealtipiche di politiche della maschilità nostalgiche in tre organizzazioni di matrice statunitense: i Promise Keepers (PK), per quanto riguarda il ritorno ai ruoli di genere tradizionali nelle relazioni sociali; i Men’s Rights Movements (MRM), per la rivendicazione di maggiori diritti per gli uomini; il Mythopoetic Men’s Movement (MMM), per il recupero soggettivo della mascolinità cosiddetta “autentica”»(Zamperini, Primo, Testoni, 2018). Questi studi di impostazione principalmente sociologica e psicosociale, conosciuti soprattutto con l’acronimo CSMM (Critical Studies on Men & Masculinities), oggi «offrono una proficua direzione per studiare sia il ruolo della maschilità nel sostenere le asimmetrie di potere nelle relazioni di genere, sia l’eterogeneità dei modi in cui i soggetti arrivano a definirsi come uomini» (Zamperini, Primo, Testoni, cit., pag. 399). Uno dei più interessanti risultati di questo approccio è l’individuazione dell’esistenza, a livello sociale, della cosiddetta Teoria della Maschilità Egemone (TME), vale a dire un insieme di strutture presenti sia a livello economico, lavorativo e di potere sia a livello psichico individuale che «organizzano la formazione di relazioni tra gli individui» (Connell B., 1987, cit. da Zamperini, Primo, Testoni, 2018). Come specificano, al riguardo, gli stessi Zamperini, Primo e Testoni, «L’applicazione dell’aggettivo “egemone” – ripreso dal pensiero di Antonio Gramsci (1929-35) – allo studio delle maschilità non è casuale. Esso viene a denotare infatti un modello culturale idealizzato di maschilità che, definendosi come misura di valore, legittima specifiche relazioni gerarchiche tra le maschilità, tra maschilità e femminilità e tra uomini e donne. Egemone è dunque quella maschilità che, in un determinato contesto storico e sociale, assolve al compito di legittimare e riprodurre dinamiche patriarcali attraverso il mantenimento di una distintività positiva della maschilità dalla femminilità» (Zamperini, Primo, Testoni, cit. pag.406).
Ciò che a mio avviso risulta pertanto opportuno tentare di fare ora per limitare il più possibile i terribili effetti prodotti a livello sociale dalla permanenza di tale visione egemonica del ruolo maschile nella nostra società contemporanea consiste, da una parte, nel cercare di contrastare con interventi di tipo psicologico ed educazionale l’atteggiamento maschilista che tende a ridurre e limitare ed annullare l’autonomia decisionale della donna, e, dall’altra, nel favorire il proseguimento del processo di emancipazione femminile sia attraverso forme di dibattito che si fondino su un coinvolgimento della società civile sia attraverso un potenziamento della legislatura delle “pari opportunità” (e ciò anche mediante la rappresentazione e la divulgazione di questa nuova identità femminile emancipata attraverso i media, i giornali, le pubblicità).
Da un punto di vista storico, questa inadeguatezza della Società a stare al passo con l’emancipazione femminile si riflette nella risposta spesso tardiva o inadeguata delle istituzioni alle denunce di violenza da parte delle vittime. Spesso vi è stata violenza per molto tempo in molte situazioni che si concludono con la morte della donna (Schulman, 1979; Johnson, 1995).
Questo problema determina, insieme a molti altri, la percentuale relativamente piccola di donne che denunciano violenza. Tuttavia, su questo influiscono anche fattori di tipo psicologico. La denuncia a volte è difficile da presentare, perché vi è il concreto rischio di un aumento di maltrattamenti in condizioni di terrore, e chi è terrorizzato fa fatica a parlare; lo Stato dovrebbe dunque dedicare molto più tempo e molte più risorse alla costruzione di aree per l’ascolto delle donne, per l’indagine, per la protezione e per la prevenzione.
La componente psicologica della violenza di genere e del femminicidio e le considerazioni conseguenti
Mentre l’analisi sociale e politica sul fenomeno della violenza di genere appare quindi da tempo largamente affrontata e dibattuta, minor spazio sembra ad oggi essere stato dedicato alla discussione psicologica delle sue dinamiche e delle sue cause (Straus e Gelles 1992; Dutton, 1994). Potrebbe essere, ad esempio, che la giusta critica alla riduttiva rappresentazione dei femminicidi come “momenti di follia” o come “omicidi passionali” abbia contribuito, nel tempo, a rendere riluttanti a occuparsi di questo aspetto molti autori che altrimenti sarebbero stati, su questo tema, molto più presenti. Comunque, almeno a mio avviso, un’attenta analisi psicologica potrebbe essere di grande aiuto sia, da un lato, per far comprendere i segnali di allarme e quindi prevenire almeno in una certa misura gli atti di violenza e, dall’altro, per elaborare strategie efficaci per ridurre anche nel lungo termine tali atti. Le due spiegazioni (sociale/politica e psicologica) sono infatti assolutamente compatibili ed anzi a mio avviso complementari, ed appare pertanto importante lavorare su entrambi questi aspetti se si vuole riuscire a contrastare la violenza domestica in un modo sufficientemente efficace.
Ogni volta che un uomo è violento, o almeno nella maggior parte dei casi in cui ciò avviene, a livello psicologico tale violenza nasce da un sentimento di fragilità, da lui considerata inaccettabile, alla quale egli cerca di resistere picchiando. Infatti la violenza è per molti il tentativo di controllare la depressione, derivata da sentimenti di umiliazione inaccettabili: spesso, peraltro, queste persone sono cresciute in ambienti violenti e sfavorevoli, essendo state umiliate o maltrattate durante l’età evolutiva dalle proprie figure di riferimento.
Gli studi sul trasferimento transgenerazionale della violenza datano quasi tutti tra la fine degli anni 1980 e la metà degli anni 1990. È dunque ormai generalmente ammesso che, se un bambino o una bambina assistono a violenza sistematica da parte di un genitore verso l’altro genitore o verso un fratello o se essi stessi subiscono violenza, è in generale più facile che poi utilizzino la violenza quando si trovano a loro volta in condizioni di stress (Straus, 1998).
La violenza intra-familiare subita o assistita nell’infanzia, la violenza messa in atto dai propri genitori che spesso, a loro volta, da bambini erano stati maltrattati e che anche per tale motivo, una volta adulti, divengono maltrattanti, pare quindi essere all’origine di una parte sicuramente non trascurabile dei comportamenti violenti delle persone: essa va quindi considerata come un problema psichiatrico grave e con risvolti sociali importanti.
Afferma ad esempio, al riguardo, Otto Kernberg: «Bambini maltrattati sviluppano maggiore dipendenza dai genitori abusanti, e nell’età adulta tendono a riprodurre i rapporti di maltrattamento» (Kernberg, 2004). La violenza familiare va, pertanto, individuata e contrastata fin dall’infanzia.
L’80% dei maschi adulti non sono violenti, il 12% è violento ogni tanto e l’8% è violento sempre. Sono pertanto questi ultimi due gruppi di individui che qui ora mi paiono particolarmente interessanti, anche al fine di iniziare, nella parte conclusiva di questo lavoro, ad affrontare il complesso tema dei rapporti tra i comportamenti violenti nei maschi e i cosiddetti “Disturbi di Personalità”, che sicuramente hanno un’incidenza non trascurabile nella violenza di genere e nel femminicidio. Edwards, Scott, Yarvis, Paizis e Panizzon (2003) hanno infatti dimostrato che vi è una percentuale significativa soprattutto di Disturbi di Personalità “Borderline”, “Antisociale” e “Narcisistico” (secondo le attuali e più diffuse classificazioni internazionali dei Disturbi di Personalità, vale a dire il DSM-5 e l’I.C.D.-10) nella popolazione degli aggressori, dei violenti verso le donne, e che queste specifiche organizzazioni psichiche danno origine in percentuale più elevata alla violenza intra-familiare, soprattutto a quella di tipo impulsivo, rispetto ad altre patologie mentali.
Secondo questi Autori, in particolare, la violenza contro le donne nei casi di femminicidio che vengono commessi da maschi può essere classificata, dal punto di vista teorico, soprattutto nelle seguenti tipologie:
1) Impulsiva intenzionale (“Mi fa arrabbiare, perdo il lume della ragione: ho intenzione in quel momento di uccidere, l’aggredisco, lei muore”);
2) Impulsiva preterintenzionale (“Ho intenzione di fare del male ma non di uccidere, mi arrabbio, dò un pugno; ma la donna cade, batte la testa e muore”);
3) Impulsiva di gruppo (“Con un gruppo di maschi, dopo avere bevuto molte birre, ci prendiamo una ragazza e la violentiamo insieme, poi la buttiamo giù dalla macchina per disfarci di lei e lei muore”);
4) Da fallimento della grandiosità narcisista (“Come si permette, una come lei che prima di conoscermi non era nessuno, di sfidarmi o lasciarmi? Questa umiliazione, questa perdita della faccia è per me insopportabile, l’unico modo che ho per dimostrare chi sono io e per riaffermare il mio potere su di lei è di farla fuori”);
5) Dolosa premeditata (“Ho un piano di assassinio preparato da tempo, per punire la mia ex donna che mi ha lasciato: l’aspetto sotto casa sua o all’esterno del suo luogo di lavoro, lei finalmente arriva e io l’ammazzo”);
6) Antisociale/Amorale (“Mi ha stufato, non mi serve più, ho un’altra più giovane e più bella, la uccido e così sono libero”).
Tuttavia, sebbene in effetti si siano verificati anche nel nostro Paese molti femminicidi sicuramente classificabili all’interno di una di queste tipologie riconducibili a veri e propri “Disturbi di Personalità”, va ricordato che nella maggior parte dei casi tali disturbi non sono facilmente rilevabili. Ne risulta perciò che questo tipo di crimine viene commesso da persone apparentemente “normali”, che anzi venivano descritte dai colleghi di lavoro o dagli amici del bar come persone per le quali “nessuno si aspettava una cosa del genere”, e che nella maggior parte dei casi, al di fuori del contesto famigliare, apparivano anzi ben integrate, socievoli, spesso addirittura simpatiche e benvolute da tutti.
Ed in tutti questi casi comunque, e cioè sia nei femminicidi commessi da persone diagnosticate o diagnosticabili come portatori di un Disturbo di Personalità (sulla base di elementi clinicamente rilevanti o anche della loro significativa biografia), sia nei casi in cui gli autori di un delitto di questo tipo sono stati descritti da tutti coloro che li conoscevano come persone “normali” o, comunque, socialmente ben integrate, la maggior parte dei femminicidi che sono accaduti in questi anni recenti nel nostro Paese appaiono comunque riconducibili ad un significativo fattore comune, e cioè la preesistenza di un legame sentimentale del carnefice con la sua futura vittima che poi la donna, spesso perché a lungo oggetto di violenze domestiche rimaste tollerate e coperte ma poi divenute pian piano inaccettabili anche per lei stessa, decide finalmente di portare a conclusione.
Da un punto di vista psicologico è pertanto importante rivolgere un forte messaggio soprattutto alle donne, che se in alcuni casi riescono a uscire da relazioni violente e a denunciarle, in molti di questi casi poi non si allontanano a sufficienza dai loro partners violenti, non si proteggono abbastanza, non leggono in tempo i segnali preliminari che c’erano stati e spesso erano anche stati estremamente chiari. Donne che accettano la compagnia di uomini violenti sviluppano infatti spesso nei loro confronti relazioni di dipendenza, la quale ha avuto di frequente origine in famiglie nelle quali la violenza e la prepotenza maschile è stata accettata o tollerata. Le ragazze che hanno padri violenti rischiano più delle altre di divenire vittime di uomini violenti (Norwood, 1990).
È perciò estremamente importante che le donne imparino a riconoscere in tempo le situazioni rischiose. Anche il più piccolo segnale di violenza (un urlo improvviso, un gesto spazientito che fa saltare il telefono dal tavolo, domande di troppo che potrebbero far pensare all’esistenza nel loro partner di una gelosia pericolosa) deve essere preso in considerazione ed interpretato come messaggio prezioso per considerare quella storia come una storia non buona, che potenzialmente ci mette a rischio, e che quindi andrebbe chiusa. Lo stesso vale, a maggior ragione, dopo il primo episodio in cui il partner non si limita all’uso di parole, ma agisce una vera e propria forma di violenza fisica come ad esempio schiaffi, pugni, gomitate o addirittura calci.
Un uomo violento non cambia con l’amore di una donna, non è curabile altro che con la conquista della consapevolezza del suo problema e con il conseguente doloroso passaggio attraverso una lenta e profonda psicoterapia.
Le donne quindi devono imparare ad essere prudenti, a difendersi, a partire dai primi segnali, dalla violenza maschile e a non accettare mai, in situazioni relazionali di conflitto e violenza, richieste di incontri per chiarimenti o reciproche discussioni in cui, inevitabilmente, si esporrebbero mettendo a repentaglio la loro sicurezza e forse anche la loro stessa vita.
Spetta perciò a ciascuno di noi il compito di accorgerci di più e più rapidamente se qualcosa, all’interno del rapporto di coppia di un nostro amico o di una nostra amica che a volte ci fa un velato accenno alle sue difficoltà, ci sembra possa “sfuggire al controllo” e dare inizio ad un vortice di avvenimenti che potrebbero portare a conseguenze anche estreme, irreparabili.
Spetta a ciascuno di noi ascoltare di più ed interpretare più attentamente quei segnali, come il rapido peggioramento scolastico di un bambino o come lividi o fratture di una donna troppo frequenti da non essere più giustificabili come “cadute accidentali” o “disattenzioni verso porte o finestre aperte”, che possono invece farci intuire che in quella famiglia di amici, vicini o conoscenti si è ormai avviata una spirale di violenza che potrebbe anche rapidamente evolvere verso tragici epiloghi.
Sta ad ognuno di noi uscire dall’indifferenza verso cose che erroneamente pensiamo non ci riguardino, magari perché ancora crediamo ad alcuni di quei proverbi che abbiamo sentito da bambini (come “L’amore non è bello se non è litigarello” oppure “Tra moglie e marito non mettere il dito”) che troppe volte, invece, hanno contribuito anch’essi a far sì che nessuno intervenisse in tempo, lasciando di fatto le future vittime di violenza domestica e persino di femminicidio sole, troppo sole.
Sta a tutti noi, quindi, mantenere alta quell’attenzione sociale che a volte può essere determinante per bloccare in tempo tali rischi.
Spetta a noi, a ciascuno di noi, il compito di far si che non si dica mai più «Era un tipo tranquillo, simpatico… chi se lo poteva immaginare?» ma, semmai: «Sembrava un tipo tranquillo, simpatico: ma dietro quella maschera che metteva fuori di casa c’era invece un uomo realmente pericoloso che, per fortuna, è stato fermato in tempo».
La violenza domestica di genere in Italia durante il primo periodo del “lockdown” provocato dalla pandemia di COVID-19 (dal 3 Marzo 2020 al 5 Aprile 2020 inclusi)
Sulla base dei dati resi noti da Coordinamento Italiano dei Centri Antiviolenza (Rete “D.i.Re,, acronimo che sta per “Donne in Rete” contro la Violenza), durante il “lockdown” recentemente attuato nel nostro Paese a seguito della pandemia di COVID-19 verificatasi all’inizio del 2020 sono state quasi tremila le donne che si sono rivolte ai Centri Antiviolenza italiani. Per l’esattezza, dal 3 marzo al 5 aprile 2020 i Centri Cntiviolenza della Rete “D.i.Re” sono stati contattati complessivamente da 2.983 donne, di cui 836, pari al 28%, sono stati contatti “nuovi”, cioè di donne che non si erano mai rivolte prima ai Centri afferenti a tale Rete.
L’incremento delle richieste di supporto, rispetto alla media mensile registrata con l’ultimo rilevamento statistico (2018), pari a 1.643, è stato del 74,5 per cento.
È questa, in sintesi, la “fotografia” che emerge dalla rilevazione statistica condotta da D.i.Re tra le 80 organizzazioni che aderiscono alla rete.
In particolare, durante tale periodo si è registrato un significativo incremento delle richieste di supporto da parte di donne che erano già seguite dai Centri Antiviolenza della rete D.i.Re, costrette a trascorrere in casa con il maltrattante il periodo di quarantena per l’emergenza coronavirus.
Si è invece registrato un significativo calo delle prime richieste di aiuto da parte di donne “nuove”, che non si erano mai rivolte prima a un Centro Antiviolenza.
“Ben oltre 1200 donne in più si sono rivolte ai centri antiviolenza D.i.Re in poco più di un mese, rispetto alla media annuale dei contatti registrata nell’ultima rilevazione”, ha notato al riguardo Paola Sdao, che con Sigrid Pisanu cura la rilevazione statistica annuale della rete D.i.Re, “un dato che conferma quanto la convivenza forzata abbia ulteriormente esacerbato situazioni di violenza che le donne stavano vivendo”.
“Un dato che ci preoccupa sono le nuove richieste di aiuto, che rappresentano solo il 28% del totale, quando invece nel 2018 rappresentavano il 78% del totale delle donne accolte”, ha concluso in proposito l’esperta Paola Sdao.
“E di queste solo il 3.5 per cento sono transitate attraverso il numero pubblico antiviolenza 1522. I nostri dati ci confermano che i centri antiviolenza sono un punto di riferimento per le donne a prescindere dal 1522, servizi essenziali mai citati nei vari DPCM che si sono susseguiti e che hanno proseguito la propria attività nonostante le difficoltà”, ha commentato inoltre al riguardo Antonella Veltri,,Presidente di D.i.Re.
La violenza domestica di genere in Italia durante il secondo periodo della cosiddetta “fase 1” del lockdown indetto a causa della pandemia di COVID-19 (dal 6 Aprile 2020 al 3 Maggio 2020 inclusi)
Tra il 6 aprile e il 3 maggio 2020 il numero delle donne che per la prima volta si sono rivolte a un centro antiviolenza della rete D.i.Re per chiedere sostegno appare decisamente aumentato rispetto al periodo immediatamente precedente. Secondo la rilevazione dei dati, curata da Paola Sdao e Sigrid Pisanu, sono infatti 2.956 le donne che si sono rivolte a un centro antiviolenza della rete D.i.Re in questo periodo. Di queste, 979 (pari al 33 per cento del totale) sono quelle che si sono rivolte a un Centro D.i.Re per la prima volta.
Sale dunque il numero delle donne che per la prima volta si sono rivolte a un Centro antiviolenza D.i.Re, che passa da 836 tra il 2 marzo e il 5 aprile a 979 tra il 6 aprile e il 3 maggio, ovvero 143 in più, pari a un incremento del 17 per cento.
“Confrontando il numero di richieste ricevute tra il 6 aprile e il 3 maggio, ancora in pieno lockdown, vale a dire 2.956, con il numero di richieste ricevute mediamente al mese nel 2018, ultimo anno per cui è disponibile la rilevazione dati, pari a 1.643, si nota un incremento complessivo di richieste del 79.9 per cento”, fa notare Paola Sdao.
Nel complesso il dato generale resta comunque stabile: tra il 2 marzo e il 5 aprile sono stati 2.983 i contatti totali, mentre tra il 6 aprile e il 3 maggio sono stati 2.956, appena 27 in meno.
Aumenta invece leggermente, tra marzo e aprile 2020, la percentuale di donne che hanno avuto bisogno di alloggio in casa rifugio: esso sale infatti dal 5 per cento per il periodo compreso tra il 2 marzo e il 5 aprile al 6 per cento del periodo compreso tra il 6 aprile e il 3 maggio 2020.
Ancora basso, seppure in crescita, resta invece il numero delle richieste arrivate ai Centri Antiviolenza della rete D.i.Re tramite il numero telefonico gratuito nazionale 1522: tra il 6 aprile e il 3 maggio esse sono state il 4,6 per cento, mentre erano state il 3 per cento nel periodo 2 marzo-5 aprile 2020.
“Questi dati confermano da un lato l’aggravarsi della violenza nella costrizione della quarantena, con l’alta concentrazione di richieste in un solo mese rispetto a mesi senza lockdown, dall’altro l’importanza del rapporto di fiducia che si crea tra operatrici dei Centri antiviolenza e donne accolte”, ha commentato al riguardo Antonella Veltri, Presidente della Rete “D.i.Re.”
“Inoltre bisogna tener conto della trasformazione della modalità di intervento, con un incremento notevole del lavoro delle operatrici per mantenere un contatto assiduo e presente pur nella distanza”, ha poi sottolineato in proposito Mariangela Zanni, Consigliera della Rete “D.i.Re” per il Veneto.
Conclusioni
Durante l’emergenza sanitaria per il COVID-19 verificatasi in Italia nel primo semestre del 2020 le “Casa d’accoglienza” messe a disposizione dai Centri Antiviolenza delle varie città italiane in cui essi sono presenti ha sicuramente rappresentato per le vittime di violenza domestica il principale luogo di isolamento, e spesso sono state rappresentate nell’ “immaginario collettivo” come un rifugio protettivo e sicuro.
Ma la violenza di genere molto spesso, come si dice, “ha le chiavi di casa”. Per molte donne, bambine e bambini i mesi di chiusura imposti dall’emergenza sanitaria COVID-19 hanno significato, in altri termini, una lunga “reclusione” con mariti, compagni o padri che già avevano avuto dei comportamenti violenti.
Una pandemia non basta quindi a fermare la violenza, e in tutto il primo semestre 2020 i Centri antiviolenza italiani non hanno mai smesso di lavorare, nel tentativo di offrire una via di fuga a tutte le donne costrette ad affrontare il peso di questa doppia emergenza. Le sedi sono rimaste aperte, fatti salvi i tempi necessari all’adeguamento alla normativa, e i telefoni, dopo un primo rallentamento iniziale, hanno ripreso a squillare.
I dati relativi agli accessi ai 14 centri aderenti al Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna nel trimestre marzo-maggio, tuttavia mostrano una diminuzione consistente delle richieste d’aiuto rispetto allo stesso trimestre nel 2019. Una diminuzione che evidentemente non riflette un calo della violenza stessa, ma piuttosto una maggiore difficoltà di accesso ad aiuto esterno durante il periodo pandemico.
Il calo degli accessi non ha riguardato infatti unicamente i nuovi accessi ma – seppure in misura minore – anche quelli di donne in percorso già dagli anni precedenti. Questo calo non è distribuito uniformemente sul periodo relativo al lockdown: una crescita importante delle richieste di aiuto si è verificata infatti nel periodo aprile-maggio 2020.
Le donne che si sono rivolte per la prima volta ai Centri del Coordinamento nel trimestre marzo-maggio 2020 sono state complessivamente 585, ovvero il 27% in meno rispetto allo stesso periodo nel 2019, quando erano state 806. Il dato complessivo risente del drastico calo che ha interessato il mese di marzo, quando le richieste erano scese del 53% rispetto a marzo 2019. Ad aprile e maggio il flusso è aumentato consistentemente, seppur senza colmare il divario con l’anno precedente.
Nel mese di aprile 2020 i nuovi accessi – ovvero quelli di donne che non si erano mai rivolte a un Centro o che lo avevano fatto a distanza di molti anni – sono stati 206, il 13% in meno rispetto ad aprile 2019. A maggio, infine, i nuovi accessi sono stati 244, continuando ad aumentare in termini nominali ma segnando un nuovo decremento in relazione al 2019 (-19%).
La presenza delle donne già seguite dai Centri antiviolenza è rimasta più stabile per tutto il periodo considerato, segnando un calo del 14% nel 2020 rispetto al trimestre marzo-maggio 2019. Considerando entrambi i gruppi di donne, cioè tutte le donne accolte (nuove e già seguite), la diminuzione degli accessi nel periodo marzo-maggio 2020 rispetto allo stesso periodo nel 2019 è stata del 20%.
«A fronte della crisi economica che si sta delineando, diventa inoltre ancora più urgente concepire interventi di sistema che valorizzino l’accompagnamento all’autonomia e all’inserimento lavorativo che caratterizza il lavoro dei centri antiviolenza», è il giudizio espresso in proposito dalla Presidente della Rete “D.i.Re.” Antonella Veltri. «Per questo il primo passo è la revisione dell’Intesa Stato-Regioni del 2014, affinché i criteri minimi per accreditarsi come Centro Antiviolenza rispettino la Convenzione di Istanbul e prendano in considerazione la fuoriuscita dalla violenza complessivamente, non solo come supporto legale o intervento in situazioni di emergenza», ha concluso al riguardo la Presidente della Rete D.i.Re.
Le Istituzioni Italiane quindi, nonostante tutti gli sforzi sin qui prodotti, appaiono ancora fortemente chiamate ad occuparsi nei prossimi mesi dei fenomeni della violenza domestica di genere e del femminicidio nel nostro Paese, fenomeni che neppure una pandemia sanguinosa e violenta come quella del COVID-19 appare essere stata in grado non solo di eliminare, ma nemmeno di diminuire in modo statisticamente significativo.
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