Il Profumo di quella Primavera ovvero l’emozione di dedicarsi alla politica vera
Mariceta Gandolfo - Docente di Lettere al Liceo Classico
The Fragrance of that Spring or the emotion of being involved in good politics
Spring is a good season for rebirth. In 1968 Prague had its spring, the people fought for freedom, but the revolution was crushed in blood. The Author remembers the period from 1980 to 1990, which was labelled as “Palermo Spring”, when, with other citizens of good will, she supported the new Mayor of the town, who had started to denounce a corrupted élite.
Per molte persone, anche troppe, darsi all’attività politica è un modo per migliorare la propria situazione economica e il proprio status sociale, assurgendo ad una condi-zione di privilegio e di potenza che li introduce in una vera e propria ‘casta’.
Io invece ho avuto la fortuna di vivere la mia prima esperienza politica, quando ero ancora molto giovane, immersa in un’atmosfera particolare, che ha segnato emoti-vamente la mia sensibilità e che è rimasta nel ricordo collettivo come la “Primavera di Palermo”.
Anche Palermo ha avuto la sua “primavera”, pur se meno universalmente nota della “primavera di Praga” del 1968, che aveva visto il tentativo portato avanti dal presi-dente cecoslovacco Dubceck di creare un “socialismo dal volto umano” e di sottrarre il suo Paese all’opprimente influenza sovietica a cui l’aveva condannato il trattato di Yalta e la logica della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, ognuno dei quali sotto il piede di una delle due super-potenze nate alla fine della seconda guerra mondiale. La primavera di Praga fu stroncata dall’invasione della Cecoslovac-chia, ad opera dei carri armati sovietici, ma rimase nella memoria del mondo come l’esempio di un intero popolo che lottava per scrollarsi di dosso il peso opprimente di un potere che soffocava ogni libertà e democrazia, esempio che fu fatto conoscere dovunque grazie al sacrificio di alcuni giovani praghesi come Ian Palach, che scelse di bruciarsi vivo piuttosto che piegarsi di fronte alla dittatura sovietica, e di scrittori cechi, come Milan Kundera, che raccontarono nei loro scritti il clima di esaltazione e di eroismo che si visse a Praga nei giorni della “Primavera”.
L’espressione “Primavera di Palermo” fu coniata, non so precisamente da chi, per rendere lo stesso clima di esaltazione, di speranza e di eroismo che fu vissuta a Palermo per una breve ma significativa stagione, fra gli anni ‘80 e ‘90 dello scorso secolo, quando una buona parte dei cittadini palermitani coltivò l’illusione di potersi finalmente sottrarre al giogo del potere mafioso e cambiare totalmente le cose.
La sensazione che si respirava in città era che la cappa di oppressione che gravava su Palermo da secoli, fosse sul punto di dissolversi, come una brutta cortina di nebbia che si sciogliesse al sole della primavera e che anche Palermo, come Praga, fosse pronta a lottare per la democrazia, la libertà e la partecipazione.
Mi riesce difficile non cadere nella retorica quando ricordo quella stagione politica, perché in essa profusi tutte le mie speranze e le mie giovani energie, esaltata anche dagli importanti avvenimenti che si svolgevano in quei giorni, come il primo maxi processo alla mafia.
Noi avremmo cambiato le cose, soprattutto noi giovani, noi avremmo combattuto la mafia a fianco dei nostri eroi: i giudici, come Falcone, Borsellino, Chinnici, Terrano- va, Caponnetto, i poliziotti come Boris Giuliano, Montana e Cassarà, i pochi rappre-sentanti delle istituzioni, che avevano intuito che bisognava andare nelle scuole e parlare ai ragazzi, come faceva il generale Dalla Chiesa, perché la cosa fondamentale era cambiare la società civile, rimuovere quella patina di indifferenza e di egoismo che spingeva la gente a “farsi i fatti propri”, a non impegnarsi di persona, ma a lasciare che della lotta alla mafia se ne occupassero coloro che per mestiere erano preposti a questo compito.
In una parola, se si voleva vincere la mafia, bisognava prima vincere la “mafiosità”, caratteristica fortemente presente nella maggioranza dei siciliani, non per motivi genetici, ma storici.
Noi siciliani siamo un popolo fiero e generoso, che tante volte nella storia è stato capace di prendere le armi e ribellarsi di fronte ai soprusi e alle ingiustizie, ma ogni volta ha visto questi slanci di orgoglio e libertà abortire, soffocati nel sangue e nei raggiri dei governanti, per cui siamo caduti in un atteggiamento di apatia di fronte alla violenza e di accettazione dell’ingiustizia, tanto le cose non cambieranno mai, anche se sembra che tutto cambierà, siamo un popolo vecchio e disilluso, come di-ceva don Fabrizio, il Gattopardo.
La primavera di Palermo è stata la reazione a questo atteggiamento, è stato un mo-vimento “giovane” ricco di illusioni e speranze, che caparbiamente voleva sostituire al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà, che voleva riscoprire l’orgoglio di essere siciliani e rifiutava l’equazione “siciliani = mafiosi” con cui eravamo bollati nel mondo. Entrai in contatto con uno dei protagonisti della “Primavera di Palermo” tramite uno scambio di lettere: avevano appena ammazzato Piersanti Mattarella, il presidente democristiano della regione siciliana, che voleva cambiare le cose in Sicilia, a comin-ciare dal suo partito, e lo stesso partito aveva voluto mandare un segnale di rinno-vamento e aveva designato sindaco di Palermo un giovanotto dal nome strano, che io non avevo mai sentito nominare, Leoluca Orlando Cascio, compagno di corrente, nonché consulente, del Presidente ucciso.
Questo giovanotto bruno e snello (allora!) da principio sembrò che non fosse diverso dai suoi predecessori ed io non gli prestai molta attenzione, poi cominciai a sentire dire che faceva cose strane, come parlare direttamente di mafia ai suoi concittadini, soprattutto ai ragazzi delle scuole, quando erano tempi in cui la mafia non la si po-teva neanche nominare, oppure chiedere al Governo di Roma che liberasse Palermo e la Sicilia dal peso degli appalti pubblici, un peso che era anche fonte di lucrosissimi affari con la mafia.
Il “Giornale di Sicilia” cominciò ad attaccarlo ogni giorno e ad ogni attacco io mi convincevo sempre di più che il giovane Sindaco fosse l’erede ideale di Piersanti Mattarella, che i suoi nemici fossero all’interno del suo stesso partito, e che sarebbe finito ammazzato, come era stato ammazzato il Presidente della Regione.
Dovevo fare qualcosa per manifestargli la mia solidarietà, anche se non ero nessuno, una semplice cittadina, una sconosciuta, anzi forse proprio per questo le mie parole avrebbero avuto più valore: presi il coraggio a due mani e gli scrissi una lettera.
E mi rispose!
La cosa mi apparve talmente incredibile che rimasi senza fiato.
Noi siciliani siamo così abituati da secoli a percepire il Potere, qualsiasi tipo di pote-re, come qualcosa di estraneo e lontanissimo da noi, con cui veniamo a contatto solo per cose spiacevoli e foriere di guai, che mai avrei pensato che il Sindaco di Palermo avrebbe trovato il tempo e la voglia di prendere carta e penna per rispondere alla lettera di una sconosciuta cittadina. Ero paralizzata dall’emozione mentre stringevo fra le mani quella busta color crema, con l’intestazione “Il Sindaco di Palermo” indi-rizzata proprio a me.
Ed era una vera lettera, lunga e articolata e scritta interamente di suo pugno, non il solito bigliettino di ringraziamento precompilato da qualche segretario, a cui apporre una firma distratta!
Fra le tante belle cose che mi diceva in quella lettera, c’era anche un invito ad andarlo a trovare al Comune per conoscerci personalmente; tutta emozionata, volli coinvolgere in quell’invito anche i miei alunni e portai con me un gruppetto di ragaz-zi, scelti fra quelli che già avevano cominciato a discutere di mafia e legalità in clas-se, ma non solo quelli, volli coinvolgere soprattutto i più violenti e facinorosi, che si divertivano a devastare le aiuole e distruggere i lampioni e le panchine della città. Poveri ragazzi! Nessuno aveva mai spiegato che questa città era anche la loro, che ciò che è pubblico vuol dire che appartiene a tutti e non che è roba senza padrone! Venivano dai quartieri periferici di edilizia popolare come lo Zen e il Cep ed avevano la convinzione che tutto ciò che non ha un proprietario non è di nessuno e può es-sere distrutto impunemente; alcuni di loro non erano mai stati in centro, ignoravano le bellezze e i tesori del centro storico di Palermo.
Orlando li accolse nel palazzo comunale come ospiti di riguardo, disse che il Comune era la loro casa e si offerse di far loro da cicerone attraverso le sale e gli appartamen-ti del Palazzo delle Aquile, conquistandoli totalmente e definitivamente. Fra attoniti e incantati i miei alunni salirono lo scalone di marmo, entrarono nell’aula del Con-siglio comunale, sedettero sugli scranni dei consiglieri, appresero che anche loro un giorno, forse, avrebbero potuto essere eletti e governare la città, si aggirarono per lo Studio del Sindaco, si affacciarono ad ammirare la vista della fontana monumentale di piazza Pretoria e delle cupolette rosse della chiesa di San Cataldo, acquisirono nello stesso istante il senso della bellezza e l’orgoglio dell’appartenenza.
Io ero commossa dal loro entusiasmo ed intuii che questa era la strada giusta da percorrere e che forse quel giovane sindaco sarebbe riuscito a cambiare i palermitani, a trasformarli da sudditi in cittadini.
Naturalmente la realtà effettuale non sempre corrispose all’utopia e Orlando ci diede qualche cocente delusione, perché si faceva trascinare dal suo stesso entusiasmo e talvolta i suoi bellissimi progetti difettavano nell’applicazione pratica.
Il primo esempio lo avemmo quasi immediatamente, nel corso di questa stessa visi-ta: il Sindaco, contagiato dall’entusiasmo dei ragazzi e avendo appreso che avevano messo in scena un’opera teatrale scritta da loro stessi (sotto la mia supervisione) che parlava di un’esperienza di lavoro minorile e di lotta all’omertà tratta da un fatto vero, si spinse fino a proporci di partecipare ad un gemellaggio fra Palermo e Vicenza, che stava organizzando in nome della lotta all’illegalità e allo sfruttamento sul lavoro.
Un gruppo di ragazzi palermitani sarebbe stato ospite di coetanei vicentini per una settimana, durante la quale ci sarebbero stati dibattiti e incontri sulla legalità, sa-rebbero state messe a confronto le diverse realtà di Palermo e Vicenza e sarebbe stato messo in scena il nostro lavoro, che si intitolava “Il coraggio di parlare”. Naturalmente tutta l’organizzazione dell’evento e le spese sarebbero state a carico del Comune di Palermo.
Fummo travolti dall’entusiasmo ed io mi gettai anima e corpo nel preparare questo gemellaggio, soprattutto nell’impresa di convincere le famiglie dei miei alunni a la-sciarli partire verso il profondo Nord, con la sola compagnia di due insegnanti, ma il Comune di Palermo ed il Sindaco in persona si erano fatti garanti della buona riuscita del gemellaggio e della sicurezza dei giovani palermitani in quella terra pericolosa, zeppa di leghisti!
Alla fine una trentina di ragazzi e due insegnanti si apprestarono a prendere il treno per Vicenza e a partire per quella avventura.
Io ero un po’ inquieta perché non ci erano stati ancora consegnati i biglietti del treno e le relative prenotazioni delle cuccette, e questa inquietudine si trasformò in panico quando mi resi conto che, a ventiquattro ore dalla partenza, il Comune non si era ancora fatto vivo. Tra l’altro era domenica e tutti gli uffici erano chiusi, comprese le segreterie della mia scuola e del Comune e i telefonini cellulari non erano ancora in uso: l’indomani 30 ragazzi e le relative famiglie si sarebbero presentati alla Stazione Centrale di Palermo e avrebbero preteso da me i biglietti e le prenotazioni, mentre io non avevo in mano nulla!
Obbligai mio marito a lasciare la nostra casa al mare, dove stavamo trascorrendo la domenica, per scendere a Palermo e mi precipitai all’ufficio informazioni della stazio-ne centrale. Qui ebbi la terribile, paventata notizia: in stazione non sapevano niente di trenta prenotazioni sul treno per Vicenza, dal Comune di Palermo nessuno aveva prenotato i biglietti ed ora i posti non c’erano più! Dovevo telefonare in Comune per chiedere informazioni, ma tanto era inutile, i ragazzi non sarebbero certo partiti l’indomani.
Mi attaccai al telefono, ma non riuscii a trovare nessuno, Orlando era sparito, forse era fuori Palermo e non era raggiungibile, ero rimasta sola, con l’incubo di trenta famiglie che aspettavano da me biglietti e prenotazioni.
Mi salvò mio marito: si ricordò che un nostro vicino della casa al mare era un pezzo grosso delle Ferrovie e così andai a disturbarlo di domenica e lui fu veramente un angelo, fece un paio di telefonate ed ottenne che al treno per Vicenza fosse aggre-gato un vagone supplementare su cui prendemmo posto tutti e trenta i partecipanti al gemellaggio. Ancora una volta, che delusione, solo le amicizie personali riuscivano a risolvere i problemi!
L’avventura finì benissimo, il gemellaggio fu un grande successo, il Comune pagò tutte le spese e i miei alunni continuarono ad essere innamorati di Orlando, ma ca-pirono che come innamorato non era del tutto affidabile e andava marcato stretto, soprattutto nelle cose pratiche!
Intanto in città le polemiche divampavano: la vecchia classe dirigente dello stesso partito del sindaco, essendosi resa conto di aver sbagliato clamorosamente nel pro-porre come candidato un uomo nuovo che minacciava di scardinare tutto il vecchio andazzo di affari e di potere, gli tolse ogni appoggio politico ed iniziò una battaglia senza quartiere, in cui lo si accusava di essere un uomo tutta apparenza e niente sostanza, schiuma da barba e panna montata, uno che infamava la Sicilia e i Si-ciliani, parlando sempre di mafia (che non esisteva ed era stata inventata, per fare carriera da parte da di un gruppetto di furbacchioni, professionisti dell’antimafia, di cui facevano parte anche Orlando e Borsellino); ma tutte queste polemiche e veleni, che partirono da un articolo del grande scrittore Leonardo Sciascia, servirono sì ad indebolire il fronte antimafia, ma anche ad aumentare paradossalmente il consenso intorno al giovane sindaco, che riscuoteva simpatie sia nei salotti aristocratici di Palermo, sia nel popolino dei mercati di Ballarò e della Vucciria, dove non disdegnava di addentare un pane ca’ meusa (panino con la milza) offerto da qualche ammiratore del sottoproletariato urbano.
Questo mix di tensione morale e populismo ci conquistò un po’ tutti e fu così che, insieme a tanti intellettuali palermitani, entrai a far parte del COCIPA e a frequen-tarne le riunioni notturne.
Il CO.CI.PA, acronimo di Comitato Cittadino di Informazione e Partecipazione, era un organismo spontaneo di cittadini che volevano partecipare attivamente alle decisio-ni che riguardavano la propria città, fiancheggiando il sindaco nella sua battaglia per la legalità e il rinnovamento.
Non avevamo all’inizio un posto dove riunirci, per cui ci vedevamo nella stupenda chiesa barocca di San Francesco Saverio, nel popolarissimo quartiere dell’Albergheria, messa a nostra disposizione dal parroco, un prete di frontiera, padre Cosimo Scorda-to, che tanto ha contribuito ad aiutare moralmente ed economicamente i suoi poveri parrocchiani, per es. mettendo in piedi una modesta attività di ristorazione gestita da disoccupati, che così venivano strappati alla tentazione di diventare manovalanza mafiosa.
In seguito Orlando ci ospitò in una saletta adiacente alla sala del Consiglio Comuna-le, ma ancora ricordo il fascino di quelle prime riunioni notturne nella bella chiesa barocca, a cui mi recavo con l’animo di un carbonaro o di un partigiano, attraversan-do di notte la città addormentata ed inoltrandomi fra i vicoli bui e deserti del centro storico senza la minima paura (Palermo è una città sicurissima di notte per le donne sole, nessuna è stata mai aggredita o violentata).
Eravamo tutti volontari, ognuno di noi aveva il suo lavoro, ma preferiva sacrificare sonno e riposo per secondare una travolgente passione politica: c’era la dottoressa dell’Ospedale dei Bambini che voleva aprire un distretto sanitario per fornire consigli e visite gratuiti alle mamme del popolarissimo quartiere in cui sorgeva l’ospedale dove lavorava, c’era la bella e giovane insegnante, oggi prematuramente scomparsa, che sognava di combattere la dispersione scolastica a cominciare dalle scuole ele-mentari e medie, per togliere i bambini dalla strada, c’era un giovane proveniente da Democrazia Proletaria, che lavorava per aiutare i cittadini dei quartieri più poveri a districarsi fra i meandri della burocrazia con le sue lentezze e il suo linguaggio spesso incomprensibili alle persone incolte, c’era il filosofo e professore, che sognava di sostituire alla città reale attuale, violenta e disperata, una città per l’uomo, dove si potesse vivere in pace e democrazia e c’erano tanti altri, architetti, magistrati, presidi di scuola, agronomi, in tutto una cinquantina di persone, il fiore dell’intel-lighenzia palermitana.
Naturalmente fummo attaccati da tutti, specialmente dal Giornale di Sicilia, che ci accusò di non essere legittimati dal voto e di essere un corpo speciale al servizio di Orlando, “I paladini del prode Orlando”, un esercito totalmente nuovo e pericoloso per la democrazia.
Ma noi non ce ne curavamo affatto, ci sentivamo i rappresentanti della parte miglio-re della città, la società civile, e non volevamo essere eletti politicamente, perché entrare in politica significava per noi entrare nel gioco delle clientele e dei compro-messi per accaparrarsi le preferenze, e piegarsi ai ricatti economici e alle minacce. Noi invece volevamo essere liberi, fare politica in modo nuovo, che poi era il modo autentico e originario, per il quale era stato coniato il termine nell’antica Grecia, ”la scienza che si occupa della polis, della comunità”.
Noi volevamo essere uno strumento di controllo, di vigilanza e di partecipazione alla vita della città, affinché in Consiglio Comunale non si consumassero imbrogli e “schi-fezze” obbedendo alla vecchia logica degli affari illeciti e del profitto malavitoso. Il sindaco, di cui eravamo i paladini, non era forse stato scelto originariamente da quello stesso partito di cui denunciava le nefandezze di fronte all’opinione pubblica?Qui stava l’anomalia di Palermo: che il sindaco era stato scelto da una maggioranza e da un partito che si era accorto troppo tardi di avere fatto un errore e di avere scelto un uomo che non intendeva sottostare alle stesse logiche mafiose che per decenni avevano dominato il partito stesso da cui proveniva.
Il sindaco della nostra città era contemporaneamente il capo della maggioranza e il capo dell’opposizione. La maggioranza in Comune cercava di fargli la festa e lui poteva contare solo sul sostegno della società civile.
Ricordo un episodio emblematico: una sera in cui si teneva una seduta del Consiglio Comunale, noi del COCIPA eravamo riuniti nella saletta adiacente alla Sala delle La-pidi e seguivamo i lavori del Consiglio attraverso una radiolina portatile. Ad un certo punto ci raggiunge Letizia Battaglia, la celebre fotografa che sedeva in Consiglio come rappresentante dei Verdi e ci sollecita, tutta concitata:
“Presto, presto... entrate in sala conciliare e sedetevi nei posti riservati al pubblico: stanno approvando una delibera con cui si autorizza l’abbattimento di una delle ul-time palazzine Liberty di Palermo, per costruire al suo posto un palazzone di dodici piani, certamente in combutta con qualche palazzinaro mafioso; si tratta di quel pa-lazzetto rosa che occupa uno dei quattro angoli della piazza della Statua, dove sorge il monumento alla Libertà, che conclude il viale omonimo, la palazzina purtroppo non è monumento storico e niente potrà salvarla, tranne la disapprovazione dei cittadini. Il sindaco chiede il vostro aiuto, perché sarà messo sicuramente in minoranza dal suo stesso partito”.
Ci precipitammo nella sala consiliare e andammo ad occupare i posti riservati al pub-blico, senza aprire bocca perché non eravamo autorizzati ad interloquire, ma bastò la nostra presenza di cittadini attenti e consapevoli per bloccare quel tentativo di speculazione edilizia. Una di noi, una giovane giornalista, si spinse a dire a voce bassa, ma sufficiente per farsi sentire “Domani scriverò sul mio giornale di questa seduta del Consiglio Comunale”.
A conclusione, oggi il palazzetto rosa è ancora al suo posto!
La nostra trasmissione “cult” era “Samarcanda”, che dedicò diverse puntate al caso Palermo e alla primavera palermitana, trasferendo tutta la redazione, Michele Santoro in testa, nella nostra città e trasmettendo in diretta dal Palazzo comunale.
Allora la struttura di Samarcanda era molto diversa da quella che divenne in seguito: non c’erano ospiti invitati precedentemente dalla redazione, i cosiddetti “esperti”, ma chiunque fra il pubblico poteva intervenire ed esprimere la propria opinione in di-retta, senza alcuna censura preventiva. L’entusiasmo mio e di tanti altri membri della società civile andò alle stelle: ecco finalmente un’occasione di democrazia diretta, l’atrio del Palazzo Comunale di Palermo ci sembrava l’agorà di Atene e noi, seduti per terra, in jeans e felpa, ci sentivamo tanti Pericle e Demostene che prendevano la parola sulle sorti della loro polis! E che emozione quando Santoro si avvicinava con il microfono e ci dava la possibilità di parlare davanti a tutta l’Italia!
La passione politica aveva contagiato un po’ tutti in città. Ricordo che il pesciven-dolo da cui mi fornivo abitualmente, un giorno mi comunicò tutto soddisfatto che alla figlioletta che gli era appena nata voleva dare il nome di Samarcanda ed io, mentre soffocando le risa, cercavo di dissuaderlo dall’infliggere quel terribile destino all’innocente neonata, mi sentii attraversata da un moto di orgoglio e contentezza, constatando quanto stava cambiando la mia città.
Intanto alle nostre spalle la Politica tesseva le sue trame e non osando passare all’eliminazione fisica dell’elemento disturbatore del sistema, (come aveva fatto in passato) cercò di eliminarlo in maniera più subdola e raffinata, provocando la crisi al Comune di Palermo e le dimissioni del giovane sindaco “scomodo”.
Ma troppo tempo era passato e troppe cose erano cam-biate perché la società civile fosse disposta a lasciare che il proprio destino e quello della propria città fosse deciso nelle stanze della Politica passando sopra la te-sta dei cittadini onesti
La passione politica divampò in città e esponenti del Comitato di Osservazione e Partecipazione, uniti a molti altri cittadini, che fino a quel momento si erano tenuti lontano dalla politica attiva si offrirono spontaneamente di collaborare a scrivere il programma elettorale per il Sindaco, che era sempre più in rotta col suo vecchio partito, tanto che alla vigilia delle ele-zioni comunali nella primavera del 1990, il maggiore leader nazionale del partito del sindaco andò in tele-visione per invitare pubblicamente gli elettori a “non” votare per quell’uomo, che, nato dal seno del partito stesso ora minacciava di scardinarlo.
Ma noi palermitani siamo orgogliosi e disubbidienti quando il Potere ci impone dall’alto di fare qualcosa contro la nostra volontà e perciò corremmo a aiutare il nostro sindaco a scrivere il suo programma elettorale: sacrificando svago e riposo, perché tutti avevamo dei doveri imposti dal lavoro e dalla famiglia, nelle po-che ore libere ci riunimmo per collaborare ad elaborare quella parte del programma che concerneva il nostro ambito lavorativo ed i nostri interessi sociali, cosic-ché i medici si occuparono della sanità, gli insegnanti della scuola, gli ecologisti dell’ambiente, gli impiegati comunali della riforma della burocrazia, realizzando, in piccolo, l’ideale platonico del governo dei sapienti al servizio della città.
Nel maggio del 1990 stravincemmo le elezioni comunali, il nostro sindaco uscente ottenne il 70% dei consensi e noi corremmo a riunirci davanti al Comune, sotto un diluvio primaverile, commossi e felici, abbracciandoci fra sconosciuti, ancora incre-duli di aver ottenuto una simile vittoria.
E anche se poi le cose non andarono come avevamo sognato ed alla primavera su-bentrò un tristissimo inverno, quello del ‘92, macchiato del sangue delle stragi di Falcone e Borsellino, le emozioni che vivemmo durante quella breve indimenticabile stagione segnerà in modo indelebile il nostro essere di uomini e donne, coscienti del proprio ruolo di cittadini, felici ed orgogliosi di aver fatto politica nell’unico modo giusto e vero.
*Docente di Lettere al Liceo Classico [maricetagandolfo1950@gmail.com]