Psicoterapie di tipo cognitivo-comportamentale evidence-based: presentazione di alcuni trattamenti brevi rivolti al paziente a rischio suicidario
MARTINA RIGNANESE *, RAFFAELLA CALATI */ **
Oltre alla conosciutissima terapia dialettico comportamentale (DBT) di Marsha Linehan, ci sono altri interventi psicoterapeutici utili per la prevenzione dei comportamenti suicidari. Lo scopo di questo articolo è quello di descrivere due interventi brevi che sembrano essere efficaci in base a risultati di studi randomizzati controllati. In particolare presenteremo due terapie cognitivo-comportamentali (CBT) rivolte alla gestione della crisi suicidaria: la Cognitive Therapy for Suicide Prevention (CT-SP) di Gregory K. Brown e Aaron T. Beck, e la Brief CBT (BCBT) di Craig J Brian e M. David Rudd
Introduzione
In un recente contributo, pubblicato nel giugno del 2019 da JAMA Psychiatry, Brent, Oquendo e Reynolds hanno ribadito quelli che sono gli elementi fondamentali nel trattamento dei pazienti a rischio suicidario (Brent et al., 2019).
Questi 7 elementi evidence-based comprendono:
• Lo screening dei pazienti a rischio, che deve essere effettuato periodicamente e utilizzando uno strumento standardizzato (come la Columbia Suicide Severity Rating Scale, C-SSRS);
• Il trattamento di possibili disturbi psichiatrici sottostanti, che contribuiscono all’esperienza del distress da parte del paziente (come ansia o depressione), alla mancanza di autocontrollo (ad esempio nell’uso di sostanze) o ad entrambe (come avviene negli stati misti del disturbo bipolare e nell’insonnia);
• La valutazione e il trattamento di condizioni mediche che possono contribuire al distress, come il dolore somatico, l’insonnia e la dispnea;
• Una collaborazione tra il clinico, il paziente e la sua famiglia, al fine di rendere l’ambiente circostante il più possibile sicuro e libero da agenti potenzialmente letali (come medicinali o armi);
• Tenere in considerazione il contesto in cui il paziente è inserito, con una particolare attenzione al supporto sociale, che può essere, quando è presente, un importante fattore di protezione, mentre la sua assenza può fungere da fattore precipitante per condotte suicidarie;
• Un attento coordinamento tra i vari elementi del sistema sanitario, che comprende la possibilità di un rapido accesso ai servizi, studi di follow-up sui pazienti con scarsa aderenza al trattamento, l’utilizzo di elementi measurement-based ed evidence-based, la formazione continua del personale, ed infine interventi di supervisione riguardo all’assegnazione e al trattamento dei pazienti a rischio suicidario;
• L’utilizzo di interventi terapeutici specifici per i quali è stata dimostrata una significativa riduzione del rischio suicidario. Si fa riferimento qui sia al mante-nimento dei contatti con il paziente (attraverso, ad esempio, cartoline o let-tere) nel periodo critico che segue la dimissione dal reparto, sia a trattamenti evidence-based tra cui interventi psicoterapeutici (come la terapia dialettico-comportamentale e la terapia cognitivo-comportamentale) ed interventi brevi focalizzati che permettono la formulazione di un Safety Plan.
Il presente articolo è tratto da una Keynote Lecture tenuta da Raffaella Calati allo European Congress of Psychology (ECP), tenutosi in Russia, a Mosca, dal 2 al 5 luglio 2019, dal titolo Psychological approaches to the treatment of emotional crisis pa-tients. L’obiettivo è la descrizione di alcuni interventi psicoterapeutici brevi di tipo cognitivo-comportamentale per i quali è stata comprovata un’efficacia in termini di riduzione del rischio suicidario.
Lo stato dell’arte
Negli ultimi anni gli studi che si sono focalizzati sugli interventi psicoterapeutici per la prevenzione del suicidio hanno raggiunto un numero tale da poter essere analizzati a livello meta-analitico.
In particolare, nel 2016 sono state pubblicate alcune meta-analisi di studi control-lati randomizzati (randomized controlled trials, RCTs) che hanno evidenziato dei dati interessanti. Calati e Courtet hanno analizzato 32 studi RCTs, che includevano 4114 pazienti randomizzati a una psicoterapia (n = 2106) o al trattamento abituale (treatment-as-usual, TAU) (n = 2008) (Calati e Courtet, 2016). I risultati mostrano come i pazienti che hanno ricevuto un intervento psicoterapeutico sono meno pro-pensi a mettere in atto tentativi di suicidio (suicide attempt, SA) rispetto a quelli del gruppo di controllo. Il number needed to treat (NNT) stimato è di 15, il che significa che, affinché questo intervento possa prevenire un SA, è necessario che vengano trattati circa 15 pazienti. Non sono state invece rilevate evidenze signifi-cative per i soggetti che avevano messo in atto comportamenti di autolesionismo non suicidario (non-suicidal self-injury, NSSI). Nonostante alcuni limiti, come la possibile presenza di bias dovuti all’eterogeneità degli studi inclusi o la mancanza di tempi sufficientemente lunghi di follow-up, questa analisi evidenzia l’efficacia della psicoterapia nella prevenzione dei tentativi di suicidio.
Un altro interessante studio di meta-analisi, pubblicato da Cochrane, è quello del team di ricerca di Keith Hawton (Hawton et al., 2016). Esso si focalizza sull’efficacia di interventi di tipo psicosociale, rispetto a TAU, in pazienti adulti che hanno messo in atto comportamenti di autolesionismo (self-harm, SH), ovvero che si sono inten-zionalmente auto-inflitti delle lesioni o che hanno tentato il suicidio. Questo tipo di comportamenti sono considerati fra i maggiori predittori di rischio suicidario. Sono stati inclusi 55 studi per un totale di 17,699 partecipanti. Diciotto di que-sti trials hanno indagato l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT), 9 invece si sono focalizzati su interventi diretti a persone che hanno messo in atto ripetutamente atti di SH, tra cui la psicoterapia di gruppo basata sulla regolazione delle emozioni, trattamenti basati sulla mentalizzazione e la terapia dialettico-comportamentale (DBT). Ancora, 4 studi hanno esaminato l’efficacia del case management mentre 11 quella del mantenimento dei contatti attraverso, ad esempio, chiamate telefoniche o lettere. Questa meta-analisi ha evidenziato come gli interventi CBT-based si siano rivelati significativamente più efficaci in termini di riduzione del numero dei partecipanti che mettevano in atto comportamenti di autolesionismo, rispetto agli interventi di tipo TAU (odds ratio (OR) 0.70, 95% intervallo di confidenza (CI) 0.55 a 0.88; numero di studi k = 17; N = 2665). Un’altra meta-analisi dello stesso team è apparsa contemporaneamente su Lancet Psychiatry (Hawton et al., 2016). In questo studio, però, diversamente dal prece-dente, il campione è composto da pazienti che hanno messo in atto un SA nei sei mesi precedenti. I risultati di follow-up hanno confermato l’efficacia della CBT in termini di riduzione del numero di pazienti che ripetono comportamenti di SH nei 6 (OR 0.54, 95% CI 0.34-0.85; k=12; N=1317) e nei 12 mesi (0.80, 0.65-0.98; k=10; N=2232) successivi al trattamento. Sono stati riscontrati rilevanti miglioramenti anche in problematiche secondarie, come depressione, hopelessness, ideazione sui-cidaria e scarse capacità di problem solving. Gli interventi basati sulla DBT, invece, sembrano contribuire alla riduzione nella frequenza di comportamenti di SH. Quindi, riassumendo, queste prime meta-analisi hanno evidenziato dei risultati pro-mettenti rispetto alla capacità dei trattamenti psicoterapeutici, in particolare CBT-oriented, di prevenire comportamenti suicidari.
La terapia dialettico-comportamentale
La terapia dialettico-comportamentale (DBT), introdotta da Marsha M. Linehan nel 1991, è il trattamento evidence-based più studiato per il trattamento di pazienti a rischio suicidario. L’assunto teorico su cui si fonda è che, alla base del comporta-mento suicidario, ci sia una pervasiva disregolazione emotiva che porta il soggetto a mettere in atto comportamenti impulsivi e maladattivi sia auto-diretti che all’in-terno della relazione con gli altri, rendendo la gamma di risposte agli eventi di vita molto meno ampia, meno flessibile e meno dialettica. Secondo la Linehan, la via principale per il trattamento consiste nell’aiutare il paziente a sviluppare abilità (skills) specifiche che gli consentano di far fronte in maniera adattiva alle situazioni che elicitano questa disregolazione. Questo tipo di trattamento comprende quattro specifiche componenti, ovvero: un’ora a settimana di terapia individuale, due ore e mezza a settimana di skills training groups, interventi di telephone coaching ed un team di consultazione per i terapeuti. DeCou e collaboratori hanno recentemente pubblicato un lavoro di meta-analisi che include 18 studi clinici controllati (non randomizzati) nei quali è stata studiata la DBT (DeCou et al., 2019). I risultati mettono in evidenza come questo tipo di trattamento si sia dimostrato efficace in termini di riduzione della violenza auto-diretta (d = -.324, 95% CI = da -.471 a -.176) e di accesso ai servizi di intervento per crisi psichiatriche (d = -.379, 95% CI = -.581 a -.176). Al contrario, non sono stati rilevati effetti significativi della DBT sull’ideazione suicidaria (d = -.229, 95% CI = da -.473 a .016). Tuttavia, l’effect size è piuttosto modesto.
Prada e collaboratori, inoltre, si sono occupati di indagare nello specifico l’efficacia di ciascuna delle quattro componenti della DBT. È risultato evidente come siano ne-cessari ulteriori studi per comprendere meglio quale specifica fase del trattamento sia la più efficace nella riduzione dei comportamenti suicidari, in quale modo e per quali pazienti (Prada et al., 2018). La Linehan stessa ha confrontato diverse forme di applicazione della DBT, in particolare la DBT-S (che comprende skills training e case management), la DBT-I (composta da terapia individuale e attività di gruppo) e la DBT standard (che include terapia individuale e skills training) (Linehan et al., 2015). Al contrario delle aspettative dei ricercatori, tutte e tre le versioni della te-rapia si sono dimostrate equivalenti dal punto di vista dell’efficacia in termini di ri-duzione dell’ideazione suicidaria, dei tentativi di suicidio, della gravità medica delle lesioni auto-inflitte, dell’utilizzo di servizi anti-crisi e anche per quanto riguarda l’aumento delle ragioni per vivere.
Ma veniamo a quello che è l’obiettivo principale del presente articolo: gli interventi psicoterapeutici cognitivo-comportamentali brevi evidence-based per il trattamento del paziente a rischio suicidario. Due interventi sembrano essere particolarmente efficaci: la Terapia Cognitiva per la Prevenzione del Suicidio (CT-SP), introdotta da Gregory K. Brown e Aaron T. Beck e la Terapia Cognitivo Comportamentale Breve (BCBT) di Craig J. Bryan e M. David Rudd. Ci proponiamo qui di presentarli breve-mente, sperando di suscitare interesse, nel qual caso rimandiamo ai manuali, per ora solo in lingua inglese: rispettivamente “Cognitive Therapy for Suicidal Patients: Scientific and Clinical Applications” (Wenzel et al. 2008) e “Brief Cognitive-Beha-vioral Therapy for Suicide Prevention” (Bryan e Rudd, 2018).
La Terapia Cognitiva per la Prevenzione del Suicidio
La CT-SP si basa sul concetto teorizzato da Beck nel 1996 di “Suicidal Mode” (Figura 1) per descrivere le interazioni sincrone che avvengono tra le diverse componenti del sistema di personalità, che includono la sfera cognitiva, emotiva, fisiologica, comportamentale e motivazionale, e che possono portare all’attivazione del Suicidal Mode. Come sappiamo, i fattori di rischio più rilevanti associati al rischio suici-dario sono una vulnerabilità genetica, una storia personale di abuso, la presenza di tratti di impulsività e l’aver già precedentemente messo in atto uno o più SA. A partire da questi fattori predisponenti, alcuni eventi di vita come la perdita del lavoro, problemi relazionali o finanziari possono fungere da fattori scatenanti che possono innescare il cosiddetto Suicidal Mode. A livello cognitivo si può attivare nel soggetto il pensiero di essere inutile, un fallimento ed un peso per le persone che lo circondano. A livello affettivo può sperimentare sentimenti di vergogna, colpa, ansia, preoccupazione, rabbia o depressione. Si riscontra anche una disregolazione a livello fisiologico che si manifesta attraverso disturbi del sonno, agitazione e dolore somatico. Tutto questo si traduce in varie problematiche, che possono includere l’abuso di sostanze, l’isolamento sociale o episodi di NSSI. A titolo esemplificativo, possiamo immaginare il caso di un paziente che in passato ha sofferto di depres-sione maggiore ed in giovane età ha tentato il suicidio in seguito alla fine della relazione con la propria fidanzata dell’epoca. A 38 anni viene licenziato dall’azienda per cui lavora da diverso tempo, ritrovandosi ad avere grosse difficoltà economiche che lo costringono a tornare a vivere con i propri genitori. Durante questo periodo sperimenta un profondo senso di fallimento e di perdita. Questi pensieri lo porta-no a sperimentare ansia, disperazione e senso di colpa per non essersi dimostrato all’altezza delle proprie ed altrui aspettative. Inizia a credere che gli altri vivrebbero meglio se lui non ci fosse. Si sente costantemente agitato, non riesce più ad uscire di casa e comincia a fare un uso eccessivo di farmaci (ansiolitici ed antidepressivi). È possibile che questo concatenarsi di elementi inneschi un circolo vizioso che lo porti a desiderare nuovamente di togliersi la vita.
La CT-SP è un intervento destinato a chi ha in precedenza tentato il suicidio o ha sperimentato intensa ideazione suicidaria. Lo scopo di questo intervento è quello di insegnare al paziente delle strategie di pensiero e di comportamento alternative da mettere in atto durante gli episodi di crisi e costruire insieme a lui una migliore rete di supporto sociale per prevenire futuri tentativi di suicidio (Brown et al., 2005). Il protocollo di trattamento è stato descritto per la prima volta a metà degli anni 2000 e prevede un numero di sedute che può variare da 10 a 16, della durata di cinquanta minuti ciascuna con una frequenza mono o bi-settimanale a seconda dei bisogni del paziente. Le sedute si articolano in 3 fasi: iniziale, centrale e finale. Nella fase iniziale (sedute 1-3) viene presentato al paziente il trattamento e il mo-dello cognitivo su cui si fonda. Fornire informazioni puntuali al paziente consente di farlo sentire maggiormente coinvolto nel processo terapeutico, così come infondere in lui la speranza che le cose potranno cambiare, o trasmettere fiducia riguardo al fatto che i propri problemi possono essere condivisi e discussi all’interno di un setting sicuro e protetto, con il supporto di un professionista che offre un ascolto realmente interessato e non giudicante (Wenzel e Jager-Hyman, 2012). Durante questa fase, inoltre, il terapeuta chiede al paziente di raccontargli il più dettaglia-tamente possibile un recente episodio di crisi suicidaria in cui il paziente ha tentato pensato al suicidio. Sulla base di questa narrazione, terapeuta e paziente stilano insieme una lista delle problematiche e degli obiettivi da raggiungere attraverso la terapia, oltre che sviluppare un Safety Plan (Stanley et al., 2018).
Nella seconda fase del trattamento (sedute 4-7) il compito del terapeuta si concen-tra sull’identificazione di strategie cognitive alternative per far fronte ai pensieri suicidari e prevenire futuri tentativi di suicidio. Questa attività di skill building si concentra sul problem solving, il controllo degli impulsi, la regolazione delle emo-zioni, la capacità di sperare, la ricerca di un supporto sociale, e un’ottimizzazione dell’aderenza al trattamento. Si tratta di un intervento di ristrutturazione cognitiva: il focus è rivolto alla modifica di quei pensieri impulsivi e maladattivi che si attiva-no durante una crisi suicidaria, come la convinzione che il futuro non potrà essere migliore del presente, che il dolore esperito sia insostenibile o che non si abbia alcun valore. Tra le tecniche che vengono maggiormente utilizzate per far fronte a questi pensieri distorti troviamo il “dialogo socratico” (che consiste nel richiedere le prove a favore e le prove contro determinate affermazioni), specifiche strategie comportamentali e tecniche immaginative (ad esempio, lo sviluppo di una concre-ta rappresentazione mentale del futuro tra 5 o 10 anni) (Wenzel e Jager-Hyman, 2012). Tuttavia, diversi pazienti riportano una certa difficoltà nel mettere in atto autonomamente le skills apprese in terapia quando si ritrovano ad essere nel pieno della crisi. Per far fronte a questa problematica possono essere utilizzate le Coping Cards, ovvero delle card che possono essere consultate nel momento del bisogno e che raccolgono alcuni degli aspetti più salienti che sono emersi e su cui si è lavorato nel corso delle sedute. Esse possono essere utilizzate anche come rapido promemoria delle ragioni per vivere (Reasons For Living, RFL), i motivi per cui il pa-ziente sente che valga la pena rimanere in vita. Ad ogni modo, in alcune occasioni le Coping Cards possono rivelarsi un deterrente non sufficiente per disinnescare una crisi. Un’altra possibilità è la costruzione di un Hope Kit personalizzato, che include alcuni elementi che possono fungere da promemoria più tangibile a livello visivo e/o tattile delle ragioni per vivere. Spesso vengono utilizzate fotografie di persone care, lettere di amici, poesie o preghiere (Wenzel e Jager-Hyman, 2012).
La terza ed ultima fase (sedute 8-10), invece, prevede il consolidamento delle abi-lità apprese nelle fasi precedenti in vista dell’evitamento di una ricaduta. Vengono inoltre elencati i successi e gli obiettivi raggiunti grazie alla terapia, e vengono poste le basi per un eventuale trattamento futuro. Il protocollo di prevenzione della ricaduta prevede una serie di esercizi durante i quali il paziente visualizza e descrive dettagliatamente, ponendo un particolare accento su pensieri ed emozioni, la serie di eventi che lo hanno portato alla crisi suicidaria, a causa della quale si è presentato in terapia. A questo punto al paziente è richiesto di rivivere una seconda volta questa rappresentazione, aggiungendo però delle considerazioni personali su quale tipo di strategia avrebbe messo in atto in un determinato momento, ed in quale modo. Questo serve al soggetto per convalidare le specifiche abilità apprese, che sarebbe in grado di utilizzare autonomamente in maniera corretta, qualora ne avesse bisogno.
Uno studio RCT condotto da Brown ha evidenziato l’efficacia della CT-SP in un cam-pione di 120 pazienti adulti che avevano tentato il suicidio nelle 48 ore precedenti (Brown et al., 2005). In particolare, nei pazienti che avevano ricevuto questo tipo di terapia è stata riscontrata una riduzione del 50% di SA rispetto ai pazienti che avevano usufruito di una tipologia di trattamento standard, come si può evincere dai follow-up effettuati a 6, 12 e 18 mesi dalla fine della terapia. Dai controlli effet-tuati dopo 18 mesi emerge che 13 soggetti fra quelli assegnati alla terapia cognitiva (24.1%) e 23 fra quelli assegnati al TAU (41.6%) avevano messo in atto almeno un SA. I livelli di depressione auto-riferita erano significativamente più bassi nei pazienti che avevano seguito la CT-SP a 6 mesi, 12 mesi, e 18 mesi. Infine, questi pazienti riportavano un senso di hopelessness significativamente inferiore rispetto al gruppo di controllo a 6 mesi. Tuttavia, non sono state rilevate differenze signifi-cative tra i due gruppi riguardo all’ideazione suicidaria.
La Terapia Cognitivo Comportamentale Breve
Nel contesto dell’Università dello Utah, in particolare all’interno del Centro Naziona-le di Studi sui Veterani, un gruppo di lavoro guidato da Bryan e Rudd ha introdotto una seconda tipologia di intervento psicoterapeutico breve, la Brief Cognitive-Be-havioral Therapy (BCBT) for Suicide Prevention, che si sviluppa a partire dalla mede-sima cornice teorica della CT-SP, della quale condivide gli assunti di base (“Suicidal Mode”). Essa consta di 12 sedute complessive, le quali vengono effettuate con frequenza mono- o bi-settimanale e che sono suddivise in tre fasi differenti, ognuna delle quali è caratterizzata da obiettivi terapeutici ben precisi. Il progresso del trat-tamento viene valutato proprio sulla base del livello di padronanza di determinate abilità raggiunto dal paziente: se il soggetto dimostra di aver acquisito determinate skills si procede con la fase successiva, altrimenti si torna indietro.
La fase 1 si focalizza sulla capacità del paziente di gestire i momenti di crisi e sulla tolleranza allo stress, pertanto si lavora sull’acquisizione di strategie di regolazione emotiva. Queste prime sedute si articolano nel seguente modo:
• Il terapeuta presenta le modalità di trattamento al paziente, descrivendo la strut-tura delle sedute, la suddivisione in tre fasi del trattamento ed il ruolo che ri-vestono i membri della famiglia o altre persone di supporto. Avere un’idea il più precisa possibile di come si svolgerà la terapia e di quali saranno gli obiettivi del percorso, infatti, aiuta il paziente a ridurre la propria ansia;
• Viene richiesto al paziente, attraverso l’utilizzo di domande dirette, di descrivere in ordine cronologico gli eventi, le emozioni ed i pensieri che si sono succeduti durante l’episodio di crisi suicidaria per il quale si è presentato in terapia. Si di-scute anche di eventuali SA precedenti, focalizzandosi sugli intenti del paziente (ad esempio domandando: “Cosa sperava che sarebbe accaduto?”) e classificando i vari tentativi in: il primo, il peggiore ed il più recente;
• Si spiega al paziente, in un linguaggio per lui facilmente comprensibile, cosa si intende per “Suicidal Mode”, riadattando il diagramma che lo descrive (corri-spondente Figura 1) in base alle informazioni che vengono riferite dal soggetto. Gli viene anche richiesto di disegnare una “tabella della terapia” su cui potrà annotare ciò che ha appreso in ciascuna seduta; • Si costruisce un Crisis Response Plan, aiutando il paziente a riconoscere i propri warning signs, identificare delle strategie auto-calmanti e ricercare un supporto sociale. In seguito, il terapeuta gli fornisce delle indicazioni su come agire in caso di crisi;
• Si definisce un preciso piano di trattamento, creando una gerarchia dei sintomi sui quali bisogna lavorare e ponendosi degli obiettivi specifici e facilmente os-servabili, quindi misurabili;
• Infine, risulta di fondamentale importanza costruire un’alleanza terapeutica con il paziente per assicurarsi un certo tipo di impegno da parte sua nei confronti del trattamento.
A questo punto, il terapeuta propone al paziente uno skills training per migliorare la capacità di regolazione delle emozioni. È importante che venga spiegata la logica che sta dietro ad ogni abilità che gli viene insegnata, facendo anche esplicitamente riferimento al modello del Suicidal Mode. Inoltre, è necessario che il soggetto possa esercitarsi su ogni skill durante le sedute e che venga aiutato a riconoscere in quale modo le strategie siano utili per attenuare la propria sofferenza. Tra le abilità che vengono insegnate troviamo:
• Esercizi di rilassamento;
• Esercizi di mindfulness;
• Una lista delle Reasons For Living: viene chiesto al soggetto di pensare a dei motivi per cui secondo lui vale la pena vivere e di annotarli su un foglio. Il terapeuta propone, inoltre, degli esercizi specifici in cui ad esempio chiede al paziente di immaginare una situazione di stress e poi, subito dopo, di pensare alle proprie RFL;
• Il Survival Kit: un contenitore (ad esempio una scatola delle scarpe) in cui il paziente deve riporre degli oggetti che rievocano stati emotivi positivi, come fotografie, regali o citazioni. Questo kit deve essere portato in terapia in modo che il clinico possa discutere di ciascun elemento con il paziente e possa eliminare quelli potenzialmente pericolosi o iatrogeni;
• Sviluppare un’igiene del sonno e una capacità di controllo degli impulsi: il pa-ziente viene istruito riguardo a delle sane abitudini del sonno, cercando di lavorare su quei comportamenti che vengono identificati come disfunzionali e tenendo un diario su cui possa annotare i propri progressi.
La seconda fase di trattamento è incentrata sull’apprendimento di abilità cognitive e di problem solving. Si tratta di un intervento di ristrutturazione cognitiva rivolta a quei pensieri e credenze che portano la persona a mettere in atto un SA. In questa fase il terapeuta si avvale dell’utilizzo di diversi strumenti come:
• Gli ABC Worksheets, in cui il paziente è chiamato ad indicare e riflettere su qual è stato l’evento che ha attivato la crisi suicidaria (Activating Event), le proprie credenze (Belief) e le conseguenze del SA (Consequence);
• I Challenging Beliefs Worksheets, che consentono al soggetto di riflettere in maniera più sistematica e razionale sulle proprie credenze;
• Interventi di Behavioral Activation, in cui si cerca di individuare delle attività che prima erano piacevoli o significative e si sviluppa un piano specifico affinché il paziente possa ricominciare a svolgerle;
• E, infine, le Coping Cards.
L’obiettivo primario della terza ed ultima fase è quello di scongiurare eventuali rica-dute, pertanto risulta utile assicurarsi che la persona abbia appreso e sappia mettere in atto autonomamente determinate skills.
Per dimostrare l’efficacia della BCBT, Rudd e collaboratori nel 2015 hanno condotto uno studio RCT su 152 militari a servizio attivo di Fort Carson, Colorado (Rudd et al., 2015). Il campione è stato randomizzato, 76 militari sono stati sottoposti a TAU, mentre gli altri 76 alla BCBT. I risultati di follow-up a 24 mesi mostrano una riduzione di circa il 60% degli SA nei militari che appartenevano a questo secondo gruppo, rispetto a quelli che erano stati assegnati al TAU. In particolare, 8 parte-cipanti alla BCBT (13.8%) hanno tentato il suicidio almeno una volta, mentre fra quelli del gruppo TAU sono stati in 18 a mettere in atto uno o più SA (40.2%) (Test di Wald χ2 =5.28, gl=1, p=0.02, hazard ratio=0.38, 95% CI=0.16–0.87, NNT=3.88). Non sono state invece rilevate differenze significative tra i due gruppi riguardo alla gravità dei sintomi psichiatrici.
E le altre psicoterapie?
Sebbene questo articolo si focalizzi esclusivamente su interventi psicoterapeutici ad indirizzo cognitivo-comportamentale, è bene tenere presente che negli ultimi anni il numero degli studi che si focalizzano sulle psicoterapie di matrice psicodi-namica sta diventando rilevante. Tra queste terapie troviamo il Trattamento Basato sulla Mentalizzazione (MBT), la Psicoterapia Interpersonale (ITP), e la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP). Nel 2019 Briggs e collaboratori hanno pubblicato sul British Journal of Psychiatry un lavoro di meta-analisi condotto su 12 RCTs in cui viene indagata l’efficacia di questo tipo di interventi riguardo alla prevenzione del suicidio (SA) e di condotte di SH (Briggs et al., 2019). I risultati di follow up mostrano una certa efficacia in termini di riduzione dei tentativi di suicidio a 12 mesi ed una minor frequenza di comportamenti di autolesionismo nel breve termine (dopo 6 mesi dalla fine del trattamento), ma non nel lungo termine. Inoltre sono stati rilevati degli effetti positivi di questo tipo di terapie anche sul benessere psi-cosociale, uno dei maggiori fattori di protezione per il suicidio.
Conclusione
In conclusione, si è visto che sono disponibili alcune terapie brevi per le quali è stata comprovata un’efficacia sulla prevenzione dei comportamenti suicidari. Ci ren-diamo conto che esse dovrebbero essere adattate alla realtà culturale e territoriale italiana, ma riteniamo che esse possano fornire spunti utili, in particolare per quei clinici che si trovano a lavorare con pazienti a rischio e devono gestire l’acuzie, spesso senza poter indirizzare i pazienti a trattamenti psicoterapeutici a lungo termine.
* Department of Psychology, University of Milano-Bicocca, Milan, Italy [martina.rignanese96@gmail.com]
** Department of Adult Psychiatry, Nîmes University Hospital, Nîmes, France [raffaella.calati@gmail.com]
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