Progetto di presa in carico multidisciplinare dei pazienti con Sclerosi Multipla: presentazione di un modello di integrazione in ambito ospedaliero
ANTONIO PEPOLI*, FRANCESCA DE LUCA*, FRANCESCO PASSANTINO*, LUIGI RUIZ**
A multidisciplinary project for multiple sclerosis patients: a hospital integration model
Il rapporto di fiducia che si stabilisce tra il paziente e il clinico che con lui affronta una diagnosi di malattia demielinizzante comporta riuscire ad affidare e condividere un complesso di esigenze e criticità della persona, rispetto alla specifica fase del ciclo di vita e al suo contesto. La realizzazione di questa alleanza consente il massimo del risultato. L’articolo si pone l’obiettivo di avviare un confronto sistematico sui modelli di lavoro operabili in ambito ospedaliero, per avviare il miglior rapporto di aderenza alle cure e aiuto del paziente. Il modello di lavoro presentato propone l’utilità di un affiancamento sistematico, medico-psicologico, negli ambulatori di prima visita per la diagnosi
di sclerosi multipla. Questi formati di intervento assolvono al duplice obiettivo di garantire un sostegno formativo continuo a favore del medico verso una lettura condivisa e integrata dei vissuti del paziente, da un lato, oltre ad una prima accoglienza professionale degli elementi psicologici presenti in un momento particolarmente critico della persona come può essere la diagnosi di malattia
Introduzione
La scienza medica ha raggiunto livelli di conoscenza e utilizza strumenti per il con-trollo dei processi in grado di guidare prassi sempre più sicure e spingere sempre più avanti gli obiettivi di cura.
Progressivamente, l’atto medico si è trasformato da strumento artigianale, variabile indipendente che metteva in interazione il corpus di conoscenze prestabilito con un determinato paziente, a variabile dipendente ed estensione tecnologica (nel senso più ampio del termine) del sistema organizzativo: ad esempio piani diagnostico terapeutici, gruppi tecnici interdivisionali, linee guida, protocolli ecc.
La medicina tecnologico-dipendente sembrerebbe sempre più estranea alla logica dell’oggetto di cura: la persona, la sua integrità di fronte alla malattia, gli orienta-menti, i sentimenti.
La medicina, che è stata per lungo tempo spazio privilegiato per donare senso alla sofferenza umana, ai momenti di passaggio, alle fragilità, alle perdite e rinascite, oggi, ancor più di ieri, è un’istituzione totale, che ci accompagna dalla vita alla mor-te, pur rischiando di perdere, progressivamente, il potere di significare la complessa dimensione esperienziale rappresentata per l’uomo dalla malattia.
Tuttavia l’adesione dipendente e salvifica agli imperativi tecnologici non può e non potrà mai ridurre l’esigenza degli individui di dotare di senso la propria esistenza ancor più di fronte a una diagnosi di malattia.
Quando si riceve una diagnosi di malattia cronica si determina un cambiamento di prospettive esistenziali che, in una complessità temporale che dipende da molte-plici fattori, comporterà faticose modificazioni, riordinamenti, nuovi orientamenti esistenziali.
E non parliamo solo di “vissuti”, parliamo di obiettivi e scelte, di adeguamento di stili di vita o, a volte, di vere e radicali trasformazioni conseguenti alla malattia: per-ché di fronte a una malattia è il malato stesso che deve adeguarsi alle prescrizioni, e che deve cambiare.
Si tratta di una ricerca di senso che il paziente dovrà affrontare tra progressioni, peggioramenti, stabilizzazioni, a volte miglioramenti insperati ma che andrà sempre migliorata per far capo alla progressione del quadro sintomatico. Coprire il varco tra le opposte istanze, della tecnica e dei bisogni delle persone, rappresenta la sfida dell’odierna prassi clinica.
La domanda che ci si pone, in un sistema di cure sempre più paritario, appare pleona-stica: “esiste un livello di psichicità, di coinvolgimento personale, una riflessione sul sé, autobiografica, che coinvolge il personale curante nella relazione terapeutica?” La risposta, ovvia, è: “certo che esiste una riflessione sul sé in relazione all’Altro del clinico”.
Senza il poter mettersi in discussione rispetto alla ricerca di senso del paziente, al suo potere di autodeterminazione nelle scelte che andranno stabilite, alla sua capa-cità di affrontare una malattia come attore del proprio sviluppo, non può esistere un rapporto di cura all’interno delle patologie croniche.
Questa storia, che potremmo chiamare semplicemente “rapporto di fiducia” inizia, e, spesso, si caratterizza fortemente nel momento della prima comunicazione diagno-stica, vero e proprio “punto di svolta” nell’esistenza delle persone che incorrono in una malattia cronica.
Alcuni anni fa ebbe una vastissima eco la pubblicazione del modello SPIKE, un insie-me di istruzioni operative ragionate per l’applicazione di una buona comunicazione medica in situazioni critiche. Tuttavia, chiunque abbia esperienza clinica, sa che ade-guare la propria comunicazione all’ascolto del nostro prossimo, implica riconoscerne e condividerne oltre alla profonda individualità psichica, anche le fragilità, le paure, le rabbie che la malattia comporta.
Qualsiasi clinico sa riconoscere la complessità del compito e si apre al bisogno di condivisone e, anche nell’interesse del cittadino, è portato a una definizione tecnica dei piani di intervento e delle possibilità di prestazioni sanitarie.
Il medico ospedaliero ha bisogno dei suoi pazienti per capire, per orientare una conoscenza, per definire un percorso di cure. Il malato ha bisogno del medico per affidarsi, per costruire sicurezze, per condividere un percorso.
Come affrontare dunque questi imperativi clinici, proprio negli anni in cui si fa più difficile il rapporto tra l’istituzione ospedaliera e i cittadini, dove le distanze sono sempre più mediate dai mezzi di comunicazione, spesso impreparati ai temi tecnici dell’aderenza alle cure, dove il fallimento dell’iper-tecnicità degli interventi, delle prassi evidence based (basate sulle prove), è diventato ormai un triste luogo comune nella mente dei cittadini? Con questo articolo riportiamo una classica esperienza di resilienza organizzativa: nel momento in cui il carico e la complessità dei compiti in rapporto alle risorse in larga parte delle istituzioni appaiono critici, grazie al dialogo costante tra specialisti in area medica e psicologica si è riusciti ad attivare un’esperienza di crescita dell’operatività clinica.
Si è trattato di un vero scatto d’orgoglio verso quella visione olistica dell’uomo, scienza umana prima ancora che scienza di natura, arte, oltreché tecnica. Presentiamo il modello di intervento e l’esperienza introdotta in modo sistematico nel 2018, nel reparto di neurologia di un’azienda ospedaliera nazionale: l’introduzio-ne di un’integrazione professionale tra psicologo e medico nella gestione della presa in carico del paziente che riceve diagnosi di sclerosi multipla.
Come sappiamo esiste ormai una lunga e consolidata tradizione di ricerca e studio attorno al paradigma epistemologico che sottende le logiche di integrazione medico-psicologica. In Italia a partire dai primi lavori pioneristici sul finire degli anni 70 sono state condivise esperienze e formati di intervento. Certamente l’impegno di condivisione progettuale, di costituzione di un corpus teorico di riferimento in grado di orientare protocolli e linee guida risente ancora di disomogeneità nel panorama sanitario. Mentre in ambito psiconcologico, di terapia antalgica, dei trattamenti psicologici inseriti in ambito riabilitativo, la costituzione di reti interdisciplinari regionali consente una discreta diffusione di modelli, protocolli, financo linee guida, risulta diversamente molto più frammentato il confronto e la produzione di modelli di lavoro sulla gestione psicologica del paziente che affronta un iter diagnostico in relazione ad una patologia.
In ambito neurologico, sicuramente, l’operatività del clinico deve compiere lo sforzo di comprendere la multidimensionalità dell’esperienza di malattia: le singolarità, le spazialità e temporalità degli eventi che si intrecciano con gli esordi sintomatici e le fasi evolutive dei sistemi (i ruoli da svolgere, i tipi di legame, l’ambito di sicurezza lavorativa) in cui le persone sono inserite. Ricordiamo a titolo di esempio la grande lezione del celebre neurologo Oliver Sacks che ha saputo trarre dalle storie dei suoi pazienti spunti di riflessione diagnostica e riabilitativa inaspettati.
Nei suoi testi le descrizioni non sono solo analisi di deficit cognitivi o motori, ma sono reconditi intimi del paziente, della vita prima e dopo l’insorgenza della malat-tia, dell’impatto fisico e sociale che la malattia ha avuto sul paziente, e quindi una vera e propria narrazione scientifica che cerca di spiegare tutte quelle piccole com-ponenti che sono però significativamente importanti per il paziente.
Un caso di medico ricercatore che viene letto come un saggista, mentre i suoi libri sono a pieno titolo indagini cliniche e terapeutiche.
E non è un caso che, all’interno dei percorsi formativi e applicativi in medicina nar-rativa condotti nell’Ospedale di Alessandria, negli ultimi cinque anni sia stata ideata la collocazione di una stanza per la scrittura autobiografica, e questa sia stata voluta e pensata proprio dai colleghi neurologi.
Lo specifico del modello qui presentato colloca il dialogo medico-psicologo, le azioni e i prodotti della riflessione psicologica, le intervisioni sui casi, il coinvolgimento emotivo reciproco e con il paziente, all’interno di un percorso formativo che, mentre garantisce la tutela del malato, verifica sul campo gli apprendimenti progressivi del medico nella comunicazione con il paziente.
In alcune patologie dalla variabilità e complessità non riducibile a norme generali, l’obiettivo di un ascolto storico e individuale del paziente non può essere delegato all’introduzione meccanicista di regole: concetti come autoregolazione, motivazione al cambiamento, autoefficacia, coping, locus of control, distress, non possono essere oggetto di semplici lezioni. Pur nella loro specificità come possibile oggetto di un confronto e una elaborazione da attuare con lo specialista psicologo, devono poter venir compresi, con la dovuta supervisione, attraverso l’ascolto dei loro pazienti, da tutti i medici.
Il dialogo medico-psicologo produce conoscenze del paziente, relative a come vive la patologia, come questa si intreccia nella storia personale, il vissuto e le rappre-sentazioni di malattia. Il miglioramento delle conoscenze, soprattutto l’elaborazione emotiva di queste, si lega alla costruzione di nuove competenze del paziente, al sostegno dei suoi sforzi di aderenza alla cura.
La malattia demielinizzante rappresenta una realtà complessa, nella quale non esi-stono terapie risolutive ed è più che normale che il malato, esasperato dall’incertez-za, porti un’infinità di interrogativi. L’essere umano ha bisogno di risposte ai propri perché e la valenza emotiva di questi, nel caso dell’esperienza di malattia, richiede ascolto.
Non si può certo chiedere a un medico di fornire ascolto e supporto sufficiente a tutti i perché e, per quanto in questo campo i professionisti manifestino una capacità di relazione di qualità superiore e riescano a porre un’adeguata enfasi sulla soggettività del malato, l’integrazione con un supposto psicologico spesso diventa fondamentale. Più semplicemente, l’obiettivo formativo sollecita quella posizione “ponte”, quel la-voro di andirivieni tra i propri riferimenti scientifici e la narrazione del paziente che dà senso a ciò che il paziente reputa opportuno per sé in quella determinata situazione.
E la costruzione comune di significati condivisi può essere certo anche una que-stione di tempo, ma non è una questione di tecniche di comunicazione, anche se le indicazioni dei vari decaloghi di regole e prassi (vedi SPIKE) ci possono aiutare, per localizzare la storia del paziente, per ricordarci di lui, delle sue criticità esistenziali che si collegano alla patologia .
Più propriamente la negoziazione intersoggettiva dei significati attorno a una malat-tia implica mantenere risposte emozionali anche di fronte alle frustrazioni, i limiti, i fallimenti di una terapia. Anzi, è proprio nei momenti difficili che si consolida il rapporto di fiducia.
L’obiettivo formativo di ogni intervento psicologico consiste nel migliorare la tenuta emozionale del clinico e dei pazienti, e questo, il nostro senso di sicurezza, come ciascuno di noi sa e ha imparato fin dalla sua infanzia nei momenti difficili, si può ottenere unicamente garantendo percorsi di riflessione intersoggettiva.
Applicazione del modello
L’esperienza alla quale facciamo riferimento è stata condotta con sistematicità negli ultimi sette mesi del 2018. Il lavoro è stato declinato secondo quelli che abbiamo identificato come i reali bisogni dell’utenza in ambito ospedaliero. In primis ci siamo occupati dell’affiancamento del neurologo in regime ambulatoriale; abbiamo ritenuto importante costruire una scheda osservativa, mutuata da precedenti esperienze di cure integrate condotte nello stesso ospedale, suddivisa in quattro sezioni differenti, che potesse riassumere le informazioni principali (di tipo anagrafico, anamnestico, medico e psicologico) rispetto alla condizione clinica generale del paziente. La com-presenza in ambulatorio veniva organizzata con cadenza settimanale, della durata di 3 ore, periodo in cui venivano visitati una media di 6 pazienti. La compilazione di una scheda condivisa il compito di costruire con il paziente una traccia narrativa per l’identificazione idiografica del suo racconto, dal quadro generale di salute, sia medica che psicologica, la presenza o meno di supporto sia in ambito familiare sia sociale, l’aderenza e la qualità della relazione medico-paziente, il tono dell’umore ed eventuali indicatori generali o specifici che motivino l’invio ad una presa in carico. La scheda osservativa ha come finalità anche quella di aprire varie possibilità di presa in carico: dal supporto psicologico, ai percorsi di psicoterapia e infine alle valutazioni neuropsicologiche. Riteniamo sia importante definire i vari livelli di presa in carico psicologica della malattia, sempre sottolineando un coinvolgimento attivo da parte del paziente fin dall’inizio e direttamente condiviso dallo specialista neu-rologo. Restituire una dimensione di équipe che si parla rappresenta un’eccellenza nei modelli di presa in carico integrata. Ricevere una diagnosi di Sclerosi Multipla obbliga il paziente a fare una serie di considerazioni che non erano state fatte fino a quel momento. Il più delle volte chi riceve diagnosi di SM è una persona giovane, spesso all’inizio o nel pieno della propria vita affettiva e lavorativa e la diagnosi entra in contrasto con le progettualità prossime o future del paziente. Inizia con il primo sintomo (qualsiasi esso sia) un nuovo percorso di vita che conduce la persona con SM ad una nuova conoscenza di sé. Ne segue un periodo di ristrutturazione non solo del rapporto con se stessa, ma anche rispetto alle relazioni con gli altri (Roscio et al., 2004). Durante lo svolgimento delle nostre attività quotidiane, in una con-dizione di assenza di diagnosi di malattia organica, il nostro corpo non viene quasi avvertito, come se la nostra esistenza venisse fatta coincidere col nostro patire e sentire corporeo. Si tratta di una consapevolezza pre-riflessiva e tramite essa affer-riamo nel mondo il nostro esistere; il mio corpo afferma la mia esistenza sia per me che per gli altri e insieme troviamo un limite a ogni pretesa assolutistica (Lorenzi, 2009, p. 71). La possibilità di passare dal corpo che sono al corpo che ho avviene secondo gradi progressivi di autocoscienza riflessiva. Questa differenza si manifesta, ad esempio, nel corso della malattia fisica, oppure quando il nostro corpo diventa motivo di attenzione da parte degli altri. Nel corso di una malattia si può assistere ad un repentino passaggio dall’indifferenza per il corpo che sono alla focalizzazione enterocettiva (Liccione, 2011). Questo aspetto può emergere in modo particolare in soggetti che hanno già una predisposizione ad ascoltare i propri segnali viscerali in maniera esasperata. Occorre inoltre porre l’attenzione su un concetto filosofico importante che può sensibilizzare l’approccio al singolo individuo. La diagnosi di Sclerosi multipla riguarda un corpo, inteso come “carne”, che vive e patisce (Husserl, 1911 ) e quindi non è una malattia che si aggiunge, in senso riduzionistico, ad un organismo, ma una condizione attraverso la quale il paziente si definisce e percepi-sce. Questo ci spinge, perentoriamente, a considerare l’individuo nella sua interezza e complessità. Il momento della diagnosi determina una reazione psicologica molto in-tensa ed è uno dei più difficili da affrontare, sia per le persone interessate, sia per chi sta loro vicino. Alcuni dei sentimenti più comuni che le persone provano sono: paura, rabbia, frustrazione, sconforto, impotenza, colpa, insieme al desiderio di negare ciò che sta accadendo (Bonino, 2009). Durante le fasi iniziali del percorso diagnostico prevalgono sentimenti di ansia e di angoscia, legati sia all’incertezza della diagnosi sia alla prognosi. Da uno studio abbastanza recente condotto su neo-diagnosticati è emerso che l’ansia è molto presente nel periodo che accompagna la scoperta del-la diagnosi (è presente in 4 persone su 10), particolarmente nelle donne, con una piccola ma significativa riduzione dopo 6 mesi dalla diagnosi. I sintomi depressivi, invece, non sono così comuni e sono stabili nel tempo. È probabile che questi ultimi compaiano più in là nel tempo, quando la malattia e i relativi sintomi si manifestano più frequentemente (Giordano et al., 2011). Il ruolo dello psicologo in affiancamento al neurologo si è rivelato utile per varie ragioni. In sede ambulatoriale il paziente che mostra una domanda o manifesta un malessere conoscendo direttamente lo psicologo si mostra più motivato e ingaggiato fin da subito: si possono discutere insieme le reali necessità di una eventuale presa in carico, esprimere il senso di un percorso psi-cologico affinché venga compreso dal paziente o semplicemente rimanere un punto di riferimento per una ipotetica domanda futura.
In generale una valida competenza psicologica o, nel nostro caso, la compresenza medico-psicologica, ha un valore essenziale nella comunicazione di una nuova dia-gnosi, aspetto molto delicato che richiede un percorso caratterizzato da indagini cliniche medio-lungo periodo, durante il quale il paziente rimane sospeso in attesa di comunicazioni più o meno infauste. La diagnosi va comunicata direttamente al pa-ziente, accompagnato o meno da persone per lui significative, che possano fornire un supporto emotivo e aiutarlo a comprendere meglio le spiegazioni del medico. È sem-pre importante rispettare le scelte del paziente: un buon rapporto medico-paziente si fonda su fiducia e rispetto reciproci ed è necessario per instaurare un buon rapporto terapeutico. Una partnership efficace può migliorare la consapevolezza del paziente, l’aderenza alla terapia, la soddisfazione del paziente, del medico e gli esiti. Il medico deve essere sempre in grado di valutare le caratteristiche della persona che ha di fronte per intervenire nel modo più consono e scegliere le parole più adatte a quello specifico caso. Il rispetto della questione principale su quanto sia giusto sapere, per la persona neo-diagnosticata o che segue il suo sviluppo, si apre a una complessa declinazione di domande. Va sempre garantita una risposta su tutto ciò che è uti-le per prendere coscienza della malattia, nel rispetto dei liniti di elaborazione di quel preciso momento, riorganizzare ed adattare la propria vita e prendere decisioni adeguate rispetto al proprio futuro. Le parole del medico dovrebbero includere un sentimento di incoraggiamento e di speranza evitando di minimizzare la serietà di una malattia come la SM. Conoscere la propria malattia significa saperla combattere meglio; il medico e tutti gli altri operatori professionali coinvolti hanno il compito di concedere alla persona con sclerosi multipla tutto il tempo necessario perché essa si senta pronta ad accogliere informazioni rispetto alla diagnosi e alla prognosi della malattia. Fondamentale che gli operatori coinvolti condividano i contenuti trattati al momento della diagnosi in modo da non veicolare messaggi contradditori. I requisiti essenziali per una comunicazione efficace della diagnosi di SM sono risultati essere la personalizzazione, un setting appropriato e la continuità della cura (Bonino, 2009). Rispetto alla comunicazione della diagnosi, tra i vari professionisti in tutta Italia, è emerso che:
- Le informazioni fornite al momento della diagnosi devono essere formulate su misura per rispondere ai bisogni del singolo paziente;
- i contenuti e l’ordine della presentazione vanno decisi a partire dalla storia e dalla situazione presente della persona;
- aspetti nodali vanno discussi sempre, includendo il fatto che una diagnosi antici-pata non è possibile;
- il linguaggio deve essere semplice, diretto e adatto alla situazione specifica;
- il flusso delle informazioni non dovrebbe andare in una sola direzione;
- i punti di maggiore importanza vanno ripresi e sottolineati più volte con espres-sioni diverse;
- le condizioni pratiche in cui avviene il colloquio (setting) devono garantire riser-vatezza, tempo e, se richiesto, anche il supporto di altre professionalità;
- il momento informativo della diagnosi non deve essere un momento a sé stante, ma parte di un percorso integrato che deve garantire continuità (Solari et al., 2007; Bonino, 2009).
Un altro aspetto che viene affrontato frequentemente in regime ambulatoriale è l’aderenza ai farmaci, l’impatto degli effetti collaterali e l’aderenza alle raccoman-dazioni mediche. Il malato è il vero esperto della malattia e per questo deve essere ascoltato non solo in riferimento ai suoi sintomi, ma all’esperienza globale e sogget-tiva di malattia, e su come questa incida sulla sua vita personale, affettiva e sociale (Turkett et al., 1985). Per shared decision making si intende la condivisione di com-petenze tecniche e valori personali che sono possibili solo attraverso l’interazione tra il paziente e il personale sanitario (Charles et al., 1997). Ai fini del rafforzamento del grado di aderenza, il modello che offre maggiori garanzie di efficacia è quello condiviso in cui il concetto di partnership implica uguaglianza nel potere, ma anche nella responsabilità. Una terapia contrattata è probabile che sia meno efficace di una non contrattata, ma l’alternativa potrebbe essere che il paziente non segue la terapia e non lo dichiara (Moja e Vegni, 1997). Ogni terapia è accompagnata da una serie di effetti collaterali ed è sempre importante renderli noti al paziente in modo che possa valutarli insieme al medico. Durante questi mesi è capitato frequentemente di dover rivedere la terapia dei pazienti durante la visita di controllo e si è rivelato impor-tante discutere e riflettere insieme ed essi i pro e i contro di un farmaco, trovando un accordo per affrontare serenamente la cura con gli eventuali effetti collaterali. Ad un giovane ragazzo, asintomatico, attento all’aspetto estetico e nel pieno della sua attività lavorativa, era stato proposto un farmaco, candidato come il più efficace per quella specifica forma SM, che comportava la possibilità dell’assottigliamento/perdita di capelli, aspetto che il paziente in questione non era pronto ad accettare. È importante ricordare che il paziente rimane un individuo che affronta un’ardua sfida, che tenta ogni giorno di mantenere integra l’immagine di sé in un continuo trasfor-marsi e divenire di possibilità.
L’avvio di un supporto psicologico può partire da una domanda spontanea del pazien-te o essere consigliato dal neurologo/psicologo conseguentemente all’individuazione di indicatori che motivano l’invio. In questi mesi, oltre al lavoro di affiancamento e intervisione con il neurologo, sono stati presi in carico 12 pazienti, seguiti con una cadenza inizialmente settimanale e successivamente quindicinale, per una media di 12 incontri. I pazienti presi in carico avevano una diagnosi nosografica-descrittiva differente, spesso piuttosto sfumata. Si è mostrato utile aver creato uno spazio in cui il paziente potesse elaborare la propria sofferenza e la propria condizione di vita individualmente, cercare di migliorare le risorse residue, ampliare le progettualità di vita coerentemente con le possibilità reali, implementare l’autonomia e il sup-porto sociale ed affettivo qualora fosse carente, ed infine lavorare su quei modi di fare esperienza che da dis-identitari, generando sofferenza, diventano maggiormente identitari. Il supporto psicologico individuale si è mostrato efficace, nonché uno spa-zio più intimo e riservato, per tutte quelle persone che non si sentono di appartenere a una dimensione associazionistica. I centri associazionistici, indiscutibilmente utili ai fini di ricerca, possono essere un grande sostegno a livello sociale per individui con scarso supporto familiare o semplicemente per chi apprezza la condivisione degli aspetti di malattia traendone beneficio, ma possono anche venire appositamente evi-tati da persone che preferiscono sganciarsi da contesti che tendono a rimarcar loro la condizione di malattia. Qualche volta risulta importante anche il coinvolgimento dei caregiver, soprattutto nei casi più disabilitanti. I caregiver sono un aspetto molto importante della patologia perché vengono necessariamente coinvolti nei diversi livelli di accudimento. Per trovare un buon equilibrio tra l’autonomia del paziente e il carico fisico/emotivo del caregiver è fondamentale che il paziente verbalizzi le proprie necessità e difficoltà in modo che i familiari conoscano le richieste evitando di sostituirsi a lui nelle attività quotidiane. Così facendo, i caregiver rimangono punti di riferimento e stimolo ad una maggiore autonomia. Un modello di presa in carico integrata risulta poi oltremodo efficace nella misura in cui riesce ad integrare, all’interno di una stessa “regia” l’insieme delle necessità diagnostico-terapeutiche utili. Specificamente, le competenze dello psicologo in questo campo, si declinano anche in ambito delle valutazioni neuropsicologiche. Effettuare una valutazione in fase diagnostica è importante per confrontare i risultati iniziali con quelli futuri, per valutare quindi ipotetiche involuzioni. In questo caso, viene condiviso l’utilizzo della Brief Repeatable Battery of Neuropsychological Tests di Stephen Rao (Rao and Cogni-tive Function Study Group, 1990). La tempestiva ed esauriente identificazione del disturbo neuropsicologico permette di definire programmi di riabilitazione cognitiva il cui scopo è quello di guidare e regolare i fattori perturbanti in grado di modulare la riorganizzazione della funzionalità cerebrale, da un lato favorendo le capacità neuroplastiche e dall’altro inibendo eventuali cambiamenti disfunzionali (Grobberio et al., 2006; Mazzucchi, 2001).
Per concludere, possiamo dire che è importante aiutare il paziente affinché non si viva come malato ma sempre come un individuo con delle possibilità e delle proget-tualità, nell’ottica non di una condizione di malattia ma di vita.
Raccontare il percorso delle cure consente al paziente di interiorizzare e condividere, di ricollocare i fatti come esperienze realizzate in prima persona, con tutti gli sforzi e le capacità di affrontarli messi in campo, anziché mera delega passiva del proprio destino all’esterno.
Ma la raccolta del racconto, anche per noi clinici, necessita, almeno ogni tanto, di spazi di riflessione. L’esperienza, nel racconto, si interiorizza, viene mentalizzata. Il medico da solo può non riuscire a cogliere tutti i livelli del discorso della persona: poter avere uno spazio di condivisione evita la frammentazione dei dati.
Ed è in questo senso che, in un momento di particolare fatica ad affrontare le com-plessità diagnostico-terapeutiche con le attuali risorse dei settori sanitari, raccontare gli sforzi di cura e condividerli, ci è sembrata la strada giusta per recuperare energie.
* Psicologi-psicoterapeuti: SSD Psicologia Azienda Ospedaliera ”SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo” di Ales-sandria [antonio.pepoli@libero.it] [francescadeluca.psy@gmail.com]
** Neurologo: SOC Neurologia Azienda Ospedaliera SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandria
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