Riflessioni sul ruolo della psicologia nell’ambito dell’emergenza ambientale.
Paolo Di Biagio
Roggeveen non si capacitò di come un’isola così lontana dal continente potesse essere stata colonizzata da uno sparuto gruppo di polinesiani, i cui discendenti, pochi, mal ridotti e mal nutriti, abitavano ancora l’isola. Disponevano di imbarcazioni rudimentali, più zattere che barche, con le quali sembrava impossibile attraversare l’oceano. Gli indigeni dovettero essere altrettanto stupiti nel ritrovarsi a contatto con gli esploratori europei, individui umani così differenti, con abiti diversissimi e dotati di un’imbarcazione per loro gigantesca e dalle vele enormi. Ma per gli olandesi e il loro capo Roggeven lo stupore fu di gran lunga maggiore. Oltre agli indigeni, che si presentavano, come prevedibile, senza strumenti sofisticati ma solo attrezzi rudimentali per la pesca e l’agricoltura, sull’isola erano presenti poche altre forme di vita, pochi alberi, su un territorio per lo più brullo, ma anche pochi uccelli o rettili; mentre probabilmente vi erano presenti i roditori (ratti). A tale esigua presenza di vita biologica si contrapponeva un’abbondanza di straordinari ruderi: delle enormi statue, tutte scolpite con uno stile simile, dei giganteschi busti antropomorfi, sagome di volti umani dai connotati spigolosi e caratterizzati da lunghe orecchie, tutte disposte lungo la costa; erano 393, e non erano in posizione eretta, ma apparivano rovesciate a terra, giacendo come se fossero state abbattute di proposito, come se le si volessero infrangere; nella posizione eretta sarebbero state rivolte non verso il mare, ma verso l’interno dell’isola. Si trattava di statue dell’altezza media di circa cinque metri, dal peso medio di circa 10 tonnellate. Inoltre, perché non sprofondassero e restassero erette, chi le aveva scolpite e posizionate lungo la costa, aveva anche provveduto a delle basi sulle quali poggiarle: si trattava di 300 piattaforme di pietra, il cui peso stimato era di svariate decine di tonnellate – la più grande raggiungeva le 88 tonnellate. La spedizione norvegese ispezionò l’interno dell’isola. Trattandosi di un’isola vulcanica, raggiunsero il suo cratere, sul cui fondo era presente un lago paludoso, e con un diametro di 550 metri; tutto intorno ad esso, sulle pareti sia interne che esterne, rilevarono la presenza di altre statue, sempre della stessa forma e stile, di cui una alta 21 metri e pesante 270 tonnellate. Lungo le tre strade che univano il cratere alla costa, larghe più di 7 metri e lunghe fino a quasi 15 chilometri, giacevano altre 97 statue, probabilmente abbandonate durante il trasporto fuori dalla cava situata nel cratere. Immaginiamo allora quale stupore provò l’esploratore Roggeveen, che pur doveva essere abituato a confrontarsi con nuove culture tanto differenti da quelle europee, di fronte ad un tale misterioso prodigio. Chi aveva edificato quelle enormi statue? Ma soprattutto: come aveva fatto a scolpirle e a trasportarle fino alla costa? Gli indigeni non disponevano di alcun macchinario e di nessuna rudimentale gru, ed erano pochi e mal nutriti, mentre l’antropizzazione rappresentata dalle enormi statue, così peculiare ed impegnativa, poteva solo giustificarsi con la presenza sull’isola di una civiltà avanzata, come quella Incas, Maia, o Egizia, ovvero quelle civiltà antiche che erano state dotate di menti capaci di concepire artifici tecnici, necessari per issare oggetti dal peso sproporzionato anche per le folle di uomini della cui forza lavoro disponevano fino allo sfruttamento assoluto, dato che erano schiavi. Non era poi facile comunicare con gli indigeni, che probabilmente erano di una generazione distante da quelle che avevano edificato le statue, e non erano propensi a parlarne; probabilmente davano per scontata la presenza di tali monoliti, come fossero esistiti da sempre, insieme al vulcano spento, all’oceano e all’isola stessa, creazioni di qualche dio locale, o forse, più semplicemente, un simbolo in cui si concretizzava il culto dei loro antenati, e che testimoniava dell’evidenza della loro sacralità. Tutti conosciamo tale isola, battezzata dai colonizzatori “Isola di Pasqua”, dalla data della sua scoperta, mentre gli indigeni la chiamavano Rapa Nui, che si traduce con “grande isola”. I misteri intorno al suo enigma archeologico continuarono per tre secoli, fino a quando un altro esploratore, il norvegese Thor Heyerdahl, risolse il primo enigma, quello della colonizzazione dell’isola ad opera di popolazioni polinesiane, ovvero popoli non dotati di imbarcazioni dagli scafi grandi e ben attrezzati, ma solo di piccole barche. Heyerdahl, nella metà del secolo scorso, partì dal Cile con una zattera simile alle imbarcazioni polinesiane, e con essa raggiunse l’Isola di Pasqua, dimostrando che poteva essere stata colonizzata dalle popolazioni sudamericane, ovvero quelle popolazioni che ebbero nell’impero inca il loro splendore, e che mostrarono conoscenze architettoniche adeguate a giustificare la presenza dei moai – questo era il nome dato dagli indigeni alle statue – e delle loro piattaforme di pietra – i loro ahu. Le ipotesi avanzate per spiegare i segreti dell’Isola di Pasqua erano andate avanti, arrivando ad essere fantascientifiche, e invocando, come fece lo scrittore svizzero Erich Von Daniken, un incursione extraterrestre per spiegare la costruzione di ahu e moai, ma nel corso dei decenni la scienza ha dato spiegazioni ben più convincenti, risolvendo del tutto l’enigma. Jared Diamond, in uno dei suoi saggi (2005), traccia un resoconto molto dettagliato su come andarono le cose, e da esso stiamo attingendo le informazioni che riportiamo. L’isola, secondo la glottocronologia, fu colonizzata dai primi insediamenti umani fra il 400 e il 900 D. C. I rilevamenti geologici ci dicono che l’isola, fino a prima dell’arrivo degli umani, era molto florida, dotata di un terreno fertile con una presenza notevole di alberi, e molte palme di grandi dimensioni, tipiche delle isole del Pacifico. Gli insediamenti umani trovarono quindi un habitat ideale, si stanziarono sull’isola e proliferarono, costruendo una società e creando classi sociali: si organizzarono in famiglie, quindi in clan, distribuendosi sui vari territori dell’isola, coltivando ortaggi e legumi, allevando polli. Si trattava di una dozzina di clan distribuiti sulle 12 zone dell’isola, ognuno con un capo e dei sudditi. La fertilità della terra consentì agli abitanti di proliferare, fino ad arrivare ad una popolazione complessiva di diverse migliaia di individui. Come tutte le società umane, iniziarono a dare attenzione all’estetica. I moai venivano costruiti per uno scopo estetico, e probabilmente anche per scopi simbolico- religiosi: ogni clan scolpiva ed innalzava il suo, e probabilmente l’effetto era basato sull’imponenza della statua. Si generò così una gara, simile a quella che nella nostra epoca ha spinto le istituzioni e le varie lobby economiche ad assoldare ingegneri e architetti, per costruire il grattacielo più alto, gara che credo sia ancora in corso.
Scrive Diamond:
«Le enormi statue venivano scolpite direttamente nel ventre del vulcano disattivo. La roccia si prestava ad essere scolpita, trattandosi di una roccia di tufo resistente e compatta ma trattabile dagli scultori senza grandi sforzi rispetto al basalto, fattore questo che può aver stimolato la competizione dei clan e dei più giovani, dato che nell’isola il tempo libero non mancava. Una volta scavati e scolpiti, i moai venivano trasportati verso le rive dell’isola, per essere esibiti. Nel fare questo però non si preoccuparono minimamente di quello che sarebbe stato l’impatto del loro operato sull’ambiente».
Le statue, infatti, venivano spostate con delle leve, usando i tronchi delle palme. Venivano poi trasportate nel luogo dove volevano innalzarle, sempre utilizzando i tronchi delle palme, sui quali le facevano rotolare. Lo stesso accadeva per gli ahu. Viste le dimensioni di tali blocchi di pietra, possiamo facilmente immaginare il numero di palme necessarie per tali operazioni. Inoltre, insieme ai tronchi degli alberi, erano necessarie funi robuste, e anche esse venivano ricavate dalle cortecce degli alberi. Erano necessarie anche provviste di proteine per alimentare le centinaia di isolani impegnati nella costruzione e nel trasporto dei giganti di pietra, e questo secondo gli archeologi comportò un aumento dello sfruttamento della terra che andò oltre le capacità date dalla sua fertilità. Si nutrirono anche di molluschi e crostacei, anche se gli alimenti ittici non erano alla base della loro alimentazione date le coste frastagliate dell’isola che non consentivano un buon risultato nella pesca. Nei reperti del terreno all’interno di quelle che erano le zone abitate si sono ritrovate infatti più ossa di polli e ratti che lische di pesce, e numerose erano anche le ossa di volatili presenti nelle isole polinesiane. Stiamo quindi parlando di un’isola un tempo florida, ricca di risorse per far proliferare gli esseri umani; probabilmente un piccolo eden, una di quelle isole che l’uomo occidentale, immerso nella frenesia dei ritmi metropolitani, sogna come un’oasi di pace nella quale andarsi a rifugiare, magari scegliendone una foto ad alta definizione da utilizzare come sfondo sul desktop del computer, di fronte al quale ‘spende’ quasi tutte le sue ore di veglia. Ma stiamo parlando di un’isola, quindi di un territorio limitato dal mare. Su un planisfero in scala 1:33.800.000 un’isola dalle dimensioni dell’Isola di Pasqua non viene rilevata, se non con un puntino appena percepibile, segnato solo dal nome Easter. Stiamo parlando di un microcosmo che, se pur costituiva un habitat ideale per l’essere umano, non disponeva dell’estensione e delle risorse necessarie per soddisfarne i desideri di grandezza, non poteva costituire un campo di battaglia per competizioni basate sullo sfruttamento del territorio, come è sempre accaduto e ancora continua ad accadere in tutti i luoghi dove gli umani vivono. Le centinaia di ahu e moai, per essere scolpiti e trasportati, comportarono il disboscamento dell’isola.
Continua Diamond:
«La deforestazione era ormai completa nel 1722, anno in cui Roggeveen, sbarcando sull’isola, non vide nessuna specie vegetale alta più di 3 metri».
La deforestazione significò un mutamento drastico dell’ecosistema, nonché una riduzione delle risorse necessarie alla popolazione per mantenere elevato il suo consumo di alimenti. Priva di alberi e palme, la fauna volatile sparì dall’isola per raggiungere le isole ad ovest, quelle della Polinesia. Le radici degli alberi abbattuti, morendo, smisero di tenere alta la falda acquifera, e le risorse idriche dell’isola, necessarie all’agricoltura e ai bisogni degli abitanti, andarono diminuendo arrivando all’insufficienza. I terreni non coltivati, esposti al sole senza l’ombra degli alberi, inaridirono sempre di più. Le migliaia di abitanti dell’isola iniziarono a non avere più le risorse per sopravvivere. I terreni, senza più le radici vive degli alberi, iniziarono a franare facilmente, inghiottendo le abitazioni dei nativi. Anche i roditori diminuirono; diventò anche meno pescoso il mare, e oltretutto gli isolani non ebbero più alberi per fare nuove zattere e filamenti vegetali per produrre lenze da pesca.
«Queste le conseguenze più immediate della deforestazione; a lungo termine essa portò ad una cronica carenza di cibo e a un crollo demografico che ebbe come estrema conseguenza la diffusione del cannibalismo». (Diamond)
Proviamo allora ad analizzare l’aspetto psicologico di quanto fin qui raccontato. L’isola di Pasqua, come abbiamo ricordato, era un territorio abitato da gruppi di esseri umani organizzati in modo simile a quello delle altre culture. Famiglie, clan, anziani con più esperienza e quindi rispettati dai giovani, e soprattutto “capi”, figure che per forza fisica, tratti personologici più decisi e incisivi nella relazione, acquisivano il rispetto degli altri, i quali si identificavano in queste qualità e ne sostenevano il carisma riconoscendone la leadership e obbedendo alle disposizioni. Si tratta di una dinamica riconoscibile in tutte le dittature, antiche o contemporanee, dove si vedono in modo evidenti quali sono le aberrazioni delle singole personalità che si mettono agli ordini di un singolo individuo, emulandone i comportamenti e seguendone gli ordini senza riflettere sulle conseguenze che certe decisioni e le relative attuazioni possono comportare. Gli abitanti dell’isola di Pasqua ubbidivano al loro leader impegnandosi nello scolpire e tirare su giganti di pietra; non vedevano il problema della deforestazione incombere sull’isola che abitavano. Non avevano conoscenze sufficienti per capire a quale rischio si stavano esponendo. La loro cultura arcaica non aveva capacità deduttive sufficienti; si basava su conoscenze empiriche, e il solo modo di apprendere era dall’esperienza. A rinforzare l’ubbidienza al leader intervennero probabilmente anche fattori inerenti la trascendenza. Anche gli abitanti dell’Isola di Pasqua avevano il culto degli antenati:
«Il fatto che le dimensioni delle statue siano andate via via aumentando potrebbe indicare non soltanto che i capi facevano a gara per costruire le strutture più stupefacenti, ma anche che gli appelli per assicurarsi la benevolenza degli antenati, incarnati dalle statue, in un periodo di grave crisi si facevano sempre più pressanti» (Diamond).
Questa ulteriore considerazione ci porta ancora di più a riflettere su come funzioniamo noi, tutti, come specie umana. Siamo esseri viventi – gli unici che, grazie a capacità cognitive ed intellettive senza precedenti nella storia della biologia, sono in grado di manipolare l’ambiente fino a stravolgerne gli equilibri. La psicologia comparata ci permette di riconoscere anche in molte specie animali delle capacità prodigiose, delle abilità che incidono anche sull’ambiente, ma che molto difficilmente ne alterano in modo drastico e distruttivo l’equilibrio. È vero che a volte si assiste ad una sovrappopolazione di qualche specie animale che mette a rischio la stabilità dell’ecosistema, perlopiù si tratta di specie entomologiche – il biblico flagello delle cavallette – ma quello che sappiamo è che non ci sono altre specie animali in grado di avere una capacità critica sulle loro azioni, dato che agiscono per istinto, senza porsi quei limiti, dubbi, o semplicemente pensieri, che in noi umani aprono ad azioni etiche, o presunte tali. Gli abitanti dell’Isola di Pasqua si insediarono in un territorio bellissimo e adattissimo ai loro bisogni. Vi proliferarono, organizzandosi in una società rurale dove i legami affettivi consentivano una maggiore vicinanza fra i componenti della stessa famiglia o clan, mettendoli in antagonismo con altri clan con i quali non si aveva modo di sviluppare legami altrettanto positivi; organizzarono il loro lavoro e si rimisero alla volontà e alla capacità di un leader, il quale a sua volta si rivolgeva alla trascendenza per avere consiglio sul come gestire l’esistenza sua e della gente alla quale era legato. Iniziarono ad esprimere in modo creativo le loro capacità intellettive, cognitive e manuali, creando le statue, un poco come altri popoli primitivi disegnavano le pareti delle loro caverne. È importante riflettere, però, sul fatto che questo modus operandi dell’essere umano tende a portare, come è accaduto sull’isola di Pasqua, ad una escalation nella quale si cerca la gratificazione del superare l’antagonista, e magari sottometterlo, ma che spesso finisce con l’andare oltre un limite che apre al disagio e all’inadeguatezza dei comportamenti, invece che alla stabilità e al benessere.
Citando un’ultima volta Diamond:
«(... ) l’isola di Pasqua incominciò un rapido declino subito dopo aver raggiunto l’apice in quanto a popolazione, a costruzione di monumenti e a deforestazione».
Più avanti aggiunge:
«Per il loro completo isolamento, gli abitanti di Pasqua costituiscono un chiaro esempio di società che si autodistrusse attraverso lo sfruttamento eccessivo delle sue risorse».
L’isola di Pasqua può allora rappresentare, in scala ridotta, il pianeta Terra – che dovremmo smettere di considerare e nominare come “il nostro pianeta”. Forse potremmo pensare al pianeta dove siamo tutti nati e viviamo come un punto nell’universo, così come Pasqua è un punto in un planisfero. Di fronte alla rovina del loro territorio, molti indigeni si misero sulle loro barche rudimentali per navigare verso un’altra isola, e con tutta probabilità la maggior parte di loro la raggiunse. L’amara constatazione che ci propone Jared Diamond è che non abbiamo pianeti in grado di ospitarci in un prossimo futuro. La scienza aereospaziale sembra stia cercando ostinatamente un simile pianeta, ma per adesso tale ricerca è lontanissima anche da un’ipotesi di risultato positivo, e si resta quindi nell’ambito della fantascienza. Così come andò in sovrappopolazione l’isola di Pasqua, anche il pianeta Terra è oggi sovrappopolato.
Rimasi profondamente colpito leggendo il saggio di Aldous Huxley Ritorno al mondo nuovo, che scrive:
«Quando nacque Cristo la popolazione del nostro pianeta era di duecentocinquanta milioni – meno della popolazione della Cina odierna. Sedici secoli dopo… le creature umane superavano di poco i cinquecento milioni. Nel 1931… sfiorava i due miliardi. Oggi – sono trascorsi appena ventisette anni – siamo due miliardi e ottocento milioni».
L’oggi di cui parla Huxley è l’anno 1958. Siamo appena entrati nel terzo millennio, e siamo arrivati ad essere otto miliardi di abitanti, ovvero in poco più di 60 anni abbiamo triplicato il nostro numero di abitanti del pianeta. Come succedeva sull’isola di Pasqua, nell’intero pianeta l’essere umano continua ad essere organizzato in società dal comportamento competitivo, dove si gareggia nell’avere un’economia migliore, un potere maggiore degli altri nella gestione di quanto accade nell’intero mondo. Durante la guerra fredda, l’Occidente e l’Unione Sovietica gareggiavano nel costruire la bomba atomica più potente – gara di gran lunga più inquietante e folle di quella portata avanti dagli abitanti dell’isola di Pasqua. Anche oggi tali distopiche competizioni sussistono, così come continuano a sussistere guerre secolari, senza che la diplomazia riesca, malgrado gli strumenti tecnologici di cui dispone per essere in comunicazione in tempo reale, a risolverle per giungere ad una pace duratura. Siamo otto miliardi di umani sul pianeta, e abbiamo esigenze di gran lunga più gravi di quelle di duemila anni fa. Quello che consumiamo quotidianamente non è paragonabile a quello che consumavano gli abitanti di duemila anni fa; consumiamo molto di più pro-capite degli antichi abitanti dell’isola di Pasqua, non solo cibo, ma anche tutto ciò che concerne il nostro comfort, le nostre abitudini, la nostra comodità, e quello che edifichiamo e costruiamo per ottenere tali scopi. Come ci fa notare Zygmunt Bauman, ci siamo costruiti una società liquida, su valori ambigui, indefiniti, o che ci possono apparire anacronistici: l’unico imperativo che si persegue, e che tende a definirci e a strutturare la nostra identità, sta nell’essere homo consumens, e non più semplicemente sapiens sapiens. Il paradosso sul quale la psicologia sociale e la sociologia dovrebbero indagare sta nel fatto che la comunità scientifica, e quella politica, sono consapevoli degli effetti collaterali di un simile sistema di sviluppo. Gli abitanti dell’isola di Pasqua impiegarono più tempo a capire che l’aridità del terreno, la sua infertilità, le sue frane, e l’assenza degli uccelli era dovuta al loro eccesso nella produzione dei moai; forse neppure lo capirono, dato che continuarono a costruirne di più grandi per chiedere l’intervento dei loro antenati, per far cessare la carestia e la siccità, finendo con il renderle croniche. Noi oggi sappiamo che il nostro stile di vita inquinante sta logorando il pianeta, ma nello stesso tempo non sappiamo trovare le soluzioni. Gli abitanti di Rapa-Nui avrebbero dovuto smettere di costruire i moai. Noi cosa dovremmo interrompere? Quale cambiamento dovrebbe avvenire e chi dovrebbe assicurarne la realizzazione? La politica può riuscire a mutare le sorti del pianeta e quindi le nostre? Il 20 ottobre del 2010 si verificò nel golfo del Messico uno dei più grandi disastri ambientali della storia: la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon prese fuoco a seguito di un’esplosione, uccidendo 12 operai e ferendone molti altri. La piattaforma, devastata dalle fiamme, crollò inabissandosi, lasciando fuoriuscire milioni di litri di petrolio. La perforazione sul fondale di 400 metri rimase attiva, continuando a fare uscire una quantità spropositata di greggio, che rese tutta quella parte del mare dei Caraibi, in prossimità delle coste della Florida, della Louisiana, del Mississippi e dell’Alabama, una sconfinata distesa di acqua nera. Il presidente degli Stati Uniti fu ripreso, dopo pochi giorni, sulla spiaggia, di fronte alla marea nera, mentre tirava dei sassi contro il mare ripetendo: “Chiudete quel dannato buco! ”. L’esercito di ingegneri, geologi, tecnici ed esperti di ogni genere non sapevano come fare per chiudere la falla. La fuoriuscita di petrolio inquinò e deturpò uno dei mari più belli del mondo per 106 giorni. Uno degli uomini più potenti del mondo, di fronte alla catastrofe, non ebbe poteri per accelerare i tempi, e poté solo pronunciare slogan facendosi riprendere da una telecamera. L’esempio della Deepwater Horizon vuole essere indicativo del fatto che l’essere umano ha di gran lunga oltrepassato il limite della reversibilità, per quanto riguarda gli effetti collaterali delle sue manipolazioni del pianeta. La politica, in tale scenario, non può fare molto. Il sistema va da sé, con una dinamica che noi umani possiamo osservare e anche comprendere, ma non possiamo più controllare, paradossalmente, dato che siamo noi l’elemento determinante del sistema, il fattore umano che ha condizionato l’intero pianeta Terra, portandolo nell’era geologica dell’Antropocene. Il sistema della biosfera è stato condizionato in modo drastico da un’antropizzazione che ha imposto un sistema alternativo, non più dotato di un livello di entropia che definiremmo con la locuzione “leggi di natura”, bensì un sistema in cui il fattore umano sta affermando uno stato di entropia negativa dove tutto è organizzato, prevedibile, misurato, calcolato, ordinato… fino a quando l’ineluttabile, l’elemento casuale, o lo stesso “errore umano” non arriva a far riprecipitare la biosfera verso un’entropia indiscriminata, iperbolica. Ci basti pensare alla genesi dell’energia atomica, su cui la recente versione cinematografica di Nolan ci propone uno spunto di riflessione. L’essere umano raggiunge in alcuni casi un’intelligenza e delle capacità cognitive che gli consentono di osservare tutto ciò che esiste andando oltre il limite sensoriale, per indagare sull’infinitamente grande come sull’infinitamente piccolo; la sua condizione psicologica lo spinge ad un’azione conoscitiva che raggiunge traguardi oltre le leggi di natura presenti sul pianeta, sfociando nell’individuazione dell’energia di una stella… per farne quale uso? Gli effetti di un uso inadeguato dell’energia atomica ha causato i disastri di Chernobyl e Fukushima; quali sarebbero gli effetti di azioni deliberatamente distruttive con l’uso bellico di tale energia, dopo Hiroshima e Nagasaki?
Le domande che ci dovremmo porre, come psicologi, sono le seguenti:
1) qual è il limite che rende l’essere umano distruttivo?
2) quale dinamica rende cronica tale distruttività?
Per rispondere alla prima domanda, credo si debba fare riferimento al “peccato originale” che è presente nella psiche umana, e che psicoanalisti e psicoterapeuti si trovano a gestire nella loro attività quotidiana, in modo più o meno impegnativo, a seconda del caso. Più di ogni altra difficoltà che possa affliggere una persona, e che la psicopatologia classifica come disturbi della personalità, il narcisismo è presente in ognuno di noi, fin dalla nascita. Freud lo descrisse esplicitamente come narcisismo primario. Il primo concetto di narcisismo aveva a che fare con la tendenza del soggetto umano neonato ad accumulare energia libidica in se stesso, e questo per diversi anni prima di arrivare a rivolgere la sua attenzione al mondo esterno, identificando nell’altra persona un oggetto su cui riversare tale energia. Il comportamento narcisistico, una tendenza a volere fare e a volere possedere tutto, contraddistinguerebbe il neonato e l’infante in età prescolare. Allo stesso modo l’uomo primitivo voleva mutare gli stati avversi della realtà nella quale era immerso mediante il pensiero magico. Con lo sviluppo del pensiero kleiniano e bioniano si passò a teorizzare un passaggio di energia libidica sin dalla fase orale, in un rapporto con il seno contenitore, che era comunque altro dal neonato che vi si attaccava per la sua nutrizione e soddisfazione libidica. Tale sviluppo della psicoanalisi rafforzò ancora di più il concetto del narcisismo, dato che vedeva l’individuo umano, sin dai primi istanti di vita, proteso verso l’utilizzo – anche se in termini relazionali e oggettuali – di ciò che trovava nel mondo esterno, cioè il seno, per la soddisfazione del suo bisogno, in modo indiscriminato, ovvero fino ad un soddisfacimento assoluto della sua fame e del suo bisogno di sentirsi accudito e amato. Il narcisismo non è solo un concetto psicoanalitico. Il mondo accademico internazionale riconosce da decenni tale fenomeno, e ne conosce l’eccesso patologico. Esso costituisce il peccato originale della nostra psiche, dato che in una certa misura tutti ne abbiamo una componente nella nostra personalità. Ricordiamo tuttavia che è una componente necessaria: alla drastica assenza di narcisismo corrisponderebbe una profonda assenza di autostima che comporterebbe uno stato depressivo per la personalità. Il limite del narcisismo sano fu individuato da Kohut che lo riteneva necessario alla funzione del Sé; oltre quel limite inizia il narcisismo patologico, maligno. Il limite è molto permeabile e sottile, prossimo all’evanescenza. Probabilmente, l’incidenza del narcisismo è anche sottostimata dagli psicopatologi e dagli epidemiologi, dato che il disturbo di personalità più diffuso, almeno nelle culture occidentali, risulterebbe essere quello ossessivo; ma non credo si possa escludere il bias dovuto al fatto che il narcisista, anche quello più patologico, è quasi sempre egosintonico, e tende ad agire delle difese che non gli fanno mettere in discussione o in dubbio la validità del suo modo di essere. Come per gli abitanti di Rapa Nui, e come per tutti gli esseri umani presenti sul pianeta, c’è una tendenza a mantenere viva una forma basilare di narcisismo che ci spinge a desiderare in modo indiscriminato, fino all’eccesso, di avere dal mondo esterno nutrimento, cura, conforto, conferma del nostro valore, e di sentirci amati, apprezzati, desiderati. Non appena l’ipotalamo inizia a produrre quegli stimoli che si attivano nella sensazione interna della fame, il sistema limbico porta il neonato ad emettere un urlo inquietante che è un’estrema espressione di angoscia e disperazione, e che trova assoluta soddisfazione solo dopo aver assorbito attraverso la suzione dal seno e nel contatto con la madre, la quantità di latte che lo renda completamente sazio, accompagnato da una soddisfazione di piacere dovuto al contatto con il corpo che lo nutre che attiva in lui una produzione di endorfine, fondamentale per lo sviluppo del suo benessere psichico. È interessante notare lo stato di soddisfazione di un neonato dopo una poppata, quando si addormenta ancora con il capezzolo in bocca, e non è più in grado di ingerire altro latte: appare completamente in balia di un benessere assoluto, tanto da apparire simile all’eroinomane che ha assunto una dose di oppiaceo, e vive lo stato di alterazione indotta dalla sostanza con un’espressione esteriore che lo fa apparire addormentato, quasi malato e sofferente, per quanto stia provando una sensazione di estremo, artificiale e corrosivo benessere. Con la digestione e la metabolizzazione del latte, lo stomaco si svuota, torna lo stimolo della fame, e si ripete l’urlo di disperazione. Il problema sta nel fatto che l’essere umano, crescendo, potrebbe continuare a cercare una simile sazietà assoluta, spingendosi ad agire in modo indiscriminato per vedere soddisfatto ogni suo bisogno fino alla sazietà, e ciò lo porterebbe ad essere sempre più avido di cure, di abbondanza, di certezze, ad utilizzare le sue capacità intellettive e cognitive per manipolare l’ambiente attorno a sé, per emergere dalla collettività, per apparire come il più meritevole di attenzione, il più forte, il più adatto alla riproduzione, colui con la genia più copiosa e sana. Con queste premesse possiamo inquadrare il comportamento “vanitoso” dei capi clan di Rapa Nui, la tendenza dell’essere umano a persistere in una dimensione sociale e relazionale che prevede l’aspirazione ad essere maschio alfa, e la soggezione di tanti che seguono il maschio alfa in modo acritico – come nei clan sulla grande isola Rapa Nui. Questa constatazione ci introduce nella seconda domanda. L’essere umano tende ad essere dipendente in modo patologico da quello che ha. Anche la dipendenza è un tratto della personalità presente alla nascita: con la crescita e la strutturazione della personalità, si ridimensiona gradualmente, fino a sviluppare un certo grado di indipendenza, parziale, dato che restano i legami affettivi. Si tratta comunque di un livello di indipendenza che può essere sufficiente per vivere in uno stato di benessere. Quello che sembra sussistere è la dipendenza dall’ambiente. Nella pratica della clinica psicologica capita di ascoltare le espressioni di angoscia di persone che soffrono per una condizione socioeconomica percepita come povertà, condizione che si manifesta nel fatto che, per esempio, hanno dovuto vendere l’abitazione di 140 mq per andare a vivere in una casa in un quartiere più periferico e di dimensioni ridotte, e anche l’automobile da sessantamila euro per acquistarne una da diecimila. Si tratta di persone che si sentono povere, e vivono tutta l’angoscia di un fallimento, di una umiliazione che produce una frana nel Sé e uno stato di depressione anche di grave entità. Queste persone perdono, cioè, il senso della realtà, confondendo la povertà percepita con la povertà reale. Si tratta della dipendenza dal tenore di vita raggiunto: come per le sostanze psicotrope, si va in assuefazione, si cerca di avere sempre più potere economico, sociale e materiale, e la circostanza di una diminuzione di tale ‘dose’ di benessere viene avvertita come un’astinenza, una mancanza che fa crollare la produzione di endorfine, prima stimolata dall’elevato tenore di vita. Da quanto detto, spetterebbe alla psicologia e alla psicoterapia, più che alla politica, aiutare l’essere umano a riconoscere i limiti, a conoscere se stesso per comprendere che non è di eccessi che ha bisogno, ma solo di equilibri. Forse gli psicologi e gli psicoterapeuti dovrebbero anche tenere in considerazione il fatto che la risoluzione di un disturbo si attua con un cambiamento nella personalità e che si dovrebbe tenere in conto anche il contesto nel quale la persona vive, entrare in empatia con l’ambiente, sia socio-relazionale che eco-sistemico. Il lavoro dello psicologo-psicoterapeuta è centrato su un risultato che deve portare il paziente a stare bene, essere soddisfatto e gratificato per la vita che conduce e sentire un senso di stabilità per quel che riguarda la sua esistenza. Non si fa caso a quale atteggiamento il paziente prenderà, quale sarà la modalità di relazione che metterà in atto con il mondo a lui esterno, una volta risolte le incertezze esistenziali e i disturbi che lo hanno portato in terapia. Credo ci sia la tendenza negli psicoterapeuti, soprattutto in quelli che lavorano con gli adolescenti a stimolare una reazione narcisistica dei loro giovani pazienti, per portarli a reagire ad una condizione depressiva o a superare una stato di angoscia, per superare le insicurezze fisiologiche dell’età. Si tratta della tendenza a fare emergere l’aspirazione ad essere maschio alfa nel paziente. Potrebbe anche essere concepibile come aspirazione; può essere utile stimolare in un adolescente quel “sano narcisismo” di cui parla Kohut, ma non si corre il rischio di spingere tale narcisismo verso l’eccesso se il terapeuta vive nella convinzione di essere un maschio alfa? (Lo stesso dicasi per la terapeuta, indicando una locuzione analoga). Tale posizione, quindi, anche se può avere un effetto gratificante e corroborante per il paziente, forse non giova al suo bisogno – simile a quello di tutti i giovani – di poter iniziare a sperare che le catastrofi che molti scienziati ci descrivono come prospettiva, insieme ai tanti segnali che il pianeta ci dà mostrandoci la sua vulnerabilità, siano evitabili. Forse gli psicologi-psicoterapeuti dovrebbero fare un loro percorso terapeutico, come accade con la psicoanalisi, prima di cimentarsi della pratica terapeutica, dato che molte scuole di psicoterapia non lo pongono come requisito obbligatorio per la formazione; e forse non si dovrebbe smettere mai di avere un confronto con un collega, stando dalla parte del paziente, per tutto il tempo della nostra attività professionale, dato che è Freud stesso a ricordarci che l’analisi non raggiunge l’obiettivo di una metamorfosi, ma solo di una trasformazione nella psiche che «riesce, ma spesso solo parzialmente. Parte degli antichi meccanismi non vengono intaccati dal lavoro analitico» (Freud 1937). Forse dovremmo riuscire a trasmettere un maggiore senso della misura, soprattutto agli adolescenti, che rappresentano una fascia cospicua di utenti della psicologia e della psicoterapia, ma che spesso, dopo aver ottenuto un risultato positivo e il raggiungimento di una sicurezza, lasciano il percorso, anche in accordo con il terapeuta, per andare avanti da soli, come è comprensibile. In molti casi i giovani pazienti non sono ancora abbastanza maturi, non colgono la necessità di una personalità equilibrata per essere nel mondo, e non riescono a controllare un possibile tratto narcisistico persistente che li porterebbe a modalità relazionale competitiva, stile di vita basato sul consumo indiscriminato di beni materiali, in gran parte inutili. Allo stesso modo in cui si educa un bambino, fin dalla nascita, a non eccedere in modo indiscriminato con il cibo, a non abusarne, per non esporlo al rischio di sviluppare per il resto della vita una tendenza all’obesità, così bisognerebbe cercare di seguire il percorso di crescita dell’adolescente aiutandolo a riconoscere gli eccessi del tratto narcisistico, e a ricercare un benessere non basato sull’affermazione a tutti i costi del sé nel mondo esterno, bensì sulla comprensione degli effettivi e concreti bisogni di equilibrio nel suo mondo interno. Si torna quindi alla questione educativa, assiologica, che dovrebbe essere affrontata dagli adulti a cui spetta il compito di educare e trasmettere valori concreti, non fuorvianti come sono quelli basati sul cliché trogloditico del maschio alfa o quello ad esso conseguente, e vuoto, dei consumi. La psicologia, in questo senso, ha la grande responsabilità, insieme alle altre scienze umane, di comprendere tale bisogno dell’umanità intera, come di tutta la biosfera, e di renderlo sempre più percepibile e riconoscibile. L’ansia di stare andando, a livello planetario, verso un destino simile a quello, in scala 1:33.800.000, degli indigeni della “grande isola” Rapa Nui, è molto comune fra gli adolescenti ed i giovani, che non vedono davanti a sé un futuro roseo. La loro reazione però, a volte appare contraddittoria, condizionata da quel tratto narcisistico dal quale invece non dovrebbero farsi abbagliare. La cronaca ci dice di atti eclatanti, sconclusionati, forme di ribellione istrioniche, anche di tipo antisociale, e soprattutto perfettamente inutili, e non solo: imbrattare muri di edifici secolari di vernice è comunque una forma di inquinamento, bloccare un’autostrada implica fermare dei motori che restano probabilmente accesi; qual è il risultato della loro protesta se non quello di balzare sulla ribalta della cronaca, lasciando il tutto così com’è? Purtroppo tale contraddizione è analoga ad un’altra contraddizione presente in questo quadro culturale e socio-antropologico, oltre che psicologico. Freud, in un articolo del 1917, rilevò come la scienza del suo tempo stava svelando le debolezze della psiche umana, a partire dal narcisismo. Parlò delle tre ferite narcisistiche che la scienza aveva procurato all’essere umano. La prima era la ferita cosmologica: l’uomo, figlio di un Dio onnipotente che lo ha creato a sua immagine e somiglianza e lo ha posto sul pianeta Terra per esserne l’abitante eletto, scopre di non trovarsi su un pianeta attorno al quale tutto l’universo ruota. La rivoluzione copernicana ribaltò completamente la prospettiva, smontando tali convinzioni e mostrando piuttosto la fallacia di una conoscenza data solo dai sensi, che non riescono a percepire fenomeni fisici macroscopici come il movimento del pianeta su se stesso. La seconda era la ferita biologica: dopo alcuni secoli dalla rivoluzione copernicana, l’uomo doveva accettare di non essere vicino all’angelo, ma di avere per cugina la scimmia. La rivoluzione darwiniana fece crollare la convinzione di essere una creatura eletta, più vicina alla metafisica che al mondo fisico e biologico: l’uomo scoprì di discendere, come ogni altro animale, da una proliferazione di vita che si era evoluta per milioni di anni sul pianeta, diramandosi in specie, di cui quella umana era la forma più evoluta e sofisticata… comunque una forma animale, e non divina. La terza ferita narcisistica era quella psicologica: come animale dotato di un pensiero razionale, l’essere umano restava in balia di una irrazionalità che non avrebbe mai potuto del tutto risolvere: avrebbe potuto solo cercare di contenerla per rendere la sua esistenza accettabile, come la psicoanalisi andava dimostrando. Le potenzialità della mente umana non erano conosciute all’io; essa restava inconscia, e condizionava i comportamenti e gli stati affettivi ed emotivi della mente, rendendo l’esistenza un enigma, con incognite che sarebbero rimaste irrisolte, o almeno non erano ancora risolvibili, ma forse, un giorno… Nelle teorie di Freud sembrava intravedersi una speranza, dato che in buona parte era stata la visione positivistica della scienza ad avergli suggerito quelle intuizioni tramite le quali arrivare alla teoria psicoanalitica dell’inconscio e alla relativa possibilità di cura per la psiche sofferente. Era la scienza che metteva in evidenza la componente narcisistica della natura umana, con le sue deviazioni dal dato di realtà, e le conseguenze che le derive narcisistiche comportavano – manteniamo sempre come riferimento il caso di Rapa Nui. Era sempre nella scienza, allora, che si poteva trovare un miglioramento per la condizione umana. La scienza del tempo di Freud era dominata dal positivismo. In campo medico, un secolo prima della pubblicazione degli studi sull’isteria, la sperimentazione di Jenner dei primi vaccini aveva aperto una nuova frontiera per la cura delle malattie infettive, intuendo il meccanismo alla base della risposta del sistema immunitario all’agente patogeno esterno; gli studi di microbiologia di Bartolomeo Bizio, nella prima metà dell’Ottocento, e quelli di Pasteur nella seconda metà, avevano iniziato a svelare la multiformità dei microorganismi. Quando Freud pubblicò l’Interpretazione dei Sogni, nel 1899, Martinus Bejernick e Dimitri Ivanoschi avevano isolato i primi virus, individuandone la natura e la pericolosità per gli organismi viventi. Quando Alexander Fleming scoprì l’enzima lisozima, nel 1922, la psicoanalisi di Freud entrava nella fase della cosiddetta ‘seconda topica freudiana’: la scoperta della penicillina da parte di Fleming apriva alla sperimentazione degli antibiotici, e da quella data gli istogrammi demografici segnarono un’impennata senza pari nella storia dell’umanità, abbattendo gradualmente il flagello della mortalità infantile, frenando quella selezione naturale operata da virus e batteri, che decimava la popolazione mondiale. Lo sviluppo industriale, tecnologico ed economico, nel corso dei decenni, hanno portato all’estensione delle cure, tanto che oggi in Occidente il decesso per un’influenza di un bambino in età neonatale fa notizia, quando una volta era una evenienza altamente probabile. La scienza rende l’essere umano più longevo, più resistente all’aggressione degli agenti patogeni. Malgrado la follia collettiva di due guerre mondiali, con il numero iperbolico di morti conseguenti, la popolazione umana non ha smesso di crescere in tutto il pianeta. Possiamo dire che la scienza, se pur ha aiutato l’essere umano a sopravvivere e a migliorare le sue aspettative di vita, se pure gli ha dato, con la psicologia, una maggiore conoscenza di se stesso, ha anche contribuito al proliferare della presenza umana sul pianeta, che, per una sua prerogativa che la porta ad inquinare e a consumare l’ambiente dove vive, deturpa le aspettative del suo stesso futuro. Oggi c’è consapevolezza rispetto all’insostenibilità dello sviluppo in atto nelle società post industriali e altamente tecnologizzate, ma sembra non essere possibile un’inversione di rotta. È come se i polinesiani di Rapa Nui non avessero smesso di edificare ahu e scolpire moai, pur sapendo che non avrebbero in alcun modo ottenuto i favori dei loro antenati, ma avrebbero solo distrutto il loro habitat naturale e ideale. Il paradosso è evidente, dato che è umanissimo desiderare che i nostri figli siano salvati da malattie mortali, idem dicasi per noi stessi. È un dato di fatto che molti siano consapevoli dell’inadeguatezza umana nella relazione con il pianeta: spesso persone confidano allo psicologo di non volere figli perché il mondo nel quale crescerebbero è troppo contaminato, e minacciato di siccità, desertificazione, variazioni climatiche dal possibile esito nefasto; non vorrebbero mettere al mondo persone destinate all’angoscia di un mondo distopico; molti lo esplicitano anche, dichiarando di non voler avere figli ai quali lasciare un mondo alla deriva, o anche di non voler generare altri esseri umani che contribuirebbero alla devastazione del pianeta. Nel saggio del 2007, Alan Weisman ci riferisce perfino di movimenti che inneggiano all’estinzione della specie umana, in quanto sarebbe ritenuta una sorta di cancro per il pianeta Terra, movimenti come la Church of Euthanasia, che, «con i suoi quattro pilastri di aborto, suicidio, sodomia e cannibalismo, e un sito web che insegna a macellare una carcassa umana proponendo anche ricette di salse per il barbecue», inneggia al rifiuto di continuare ad essere presenti sul pianeta. Altri movimenti simili, come Il Vhemt, il Voluntary Human Extinction Movement, fondato nel 1991 da un insegnante dell’Oregon, Les Knight, propone una forma di nichilismo meno cruenta, affermando, già negli anni settanta, e in modo tanto ragionato quanto cinico, che: «Nessun virus potrebbe mai annientare sei miliardi di persone. Se anche morisse il 99,9 per cento della popolazione, rimarrebbero pur sempre seicentocinquantamila sopravvissuti naturalmente immuni. E le epidemie rafforzano la specie. Nel giro di cinquantamila anni ci ritroveremmo al punto di partenza. ” E parlando della guerra come modo per realizzare l’estinzione umana, dice: “milioni di persone sono morte in guerra, eppure la famiglia umana continua a crescere… Di solito il risultato netto è un aumento invece che una decrescita della popolazione totale. Inoltre uccidere è immorale. Lo sterminio di massa non dovrebbe neppure essere preso in considerazione come mezzo per migliorare la vita sulla terra. » La filosofia nichilista di Les Knight parla quindi di un’eutanasia nella quale si dovrebbe smettere di proliferare, smettendo di procreare, tramite vasectomia e sterilizzazione, così da riportare l’equilibrio nella biosfera, e far sì che «gli ultimi umani si godrebbero in pace il proprio tramonto, sapendo di aver riportato il pianeta il più vicino possibile al giardino dell’Eden». Tali affermazioni ci appaiono dettate da uno stato depressivo latente, se non evidente. Sarebbe come se gli abitanti di Rapa Nui avessero lasciato la grande isola una volta iniziata la loro competizione scultorea, avendo capito che tale gara avrebbe comportato la devastazione del territorio, nella consapevolezza che non sarebbero riusciti a resistere, restandovi, alla tentazione di usare la roccia di tufo, così invitante nella sua sostanza solida quanto trattabile in modo gratificante dagli scultori, per erigere quelle colossali sculture, esaltando e celebrando con tali creazioni un loro narcisismo collettivo. Per quanto sia molto diffuso il pensiero della Vhemt, e abbia molto seguaci sul web, è molto più comune che lo psicologo psicoterapeuta riceva pazienti angosciati e depressi per la prospettiva di una inabitabilità del pianeta, e quindi di una difficoltà della sopravvivenza per i loro figli; ancor più comune e diffusa è l’ansia che molti, soprattutto adolescenti e giovani, mostrano in conseguenza di tale prospettiva. La condizione umana attuale non è nuova, nella storia della nostra cultura. Il millenarismo fu presente un millennio fa, quando si temeva l’avvento di un’apocalisse descritta all’alba della storia dell’Occidente. Nel nostro presente tale condizione non avverrebbe per opera di un dio, o per eventi causali prevedibili ma inevitabili, come per esempio lo scontro con un asteroide troppo grande perché la Terra possa assorbirne l’urto. L’ipotetica apocalisse sarebbe agita, lentamente ma incessantemente, dal fattore umano stesso. Ci si dovrà occupare sempre di più di tale inquietante stato di cose. La scienza dovrà trovare alternative per fare fronte ai bisogni fisici e materiali delle persone, ridimensionandoli. Si dovranno aiutare le persone ad andare verso comportamenti ponderati, responsabili, adeguati e utili, veramente e concretamente, al loro benessere…e la scienza che si occupa dei comportamenti umani è la psicologia.
AA.VV. (2017) Trattato dei disturbi di personalità. Milano, Raffaello Cortina, 2017.
Bateson G. (1979) Mente e natura. Milano, Adelphi, 1984.
Bauman Z. (2007) Homo Consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi. Trento,
il Margine ed., 2021.
Crosby A.W. (2002) Imperialismo ecologico. Roma-Bari, Laterza, 2002.
Darwin C. (1864) L’origine delle specie. Bologna, Zanichelli, 1982.
Dennet D.C. (1995) L’idea pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita. Torino, Bollati
Boringhieri, 1997.
Diamond J. (2005) Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere. Torino, Einaudi, 2005.
Freud S. (1913) Totem e tabù. Torino, Bollati Boringhieri, 1969.
Freud S. (1914) Introduzione al narcisismo. Torino, Bollati Boringhieri, 1975.
Freud S. (1917) Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917. Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
Freud S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Torino, Bollati Boringhieri, 1975.
Freud S. (1922) L’Io e l’Es. Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
Freud S. (1937) Analisi terminabile o interminabile e Costruzioni nell’analisi. Torino, Bollati Boringhieri,
1977.
Heyerdahl T. (1958) Aku-Aku. Il segreto dell’Isola di Pasqua. Firenze, Giunti Martello, 1976.
Kohut H. (1971) Narcisismo e analisi del Sé. Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
Kohut H. (1986) Potere, coraggio e narcisismo. Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1986.
Lovelock J. (1988) Gaia: nuove idee sull’ecologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1981.
Lovelock J. (1988) Le nuove età di Gaia: una biografia del nostro mondo vivente. Torino, Bollati
Boringhieri, 1991.
McKibben, B.(1989) La fine della natura: il manifesto dell’altra ecologia. Milano, Bompiani, 1989.
Melzer D. (1973) Lo sviluppo kleiniano. Roma, Edizioni Borla, 1982.
Neri C. Correale A. Fadda P. (1987) Letture bioniane. Roma, Edizioni Borla, 1987.
Olivenstein C. (1982) Il destino del tossicomane. Roma, Edizioni Borla, 1984.
Siegel D.J. (2001) La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano, Raffaello
Cortina, 2021.
Sournia J.-C. (1992) Storia della medicina. Bari, Edizioni Dedalo, 1994.
Stewart G.R. (1949) La terra sull’abisso. Milano, Nord, 1990.
Weisman A. (2007) Il mondo senza di noi. Torino, Einaudi, 2008.
Wilson E.O. (1999) Biodiversità. Firenze, Sansoni, 1999.
Wilson E.O. (2002) Il futuro della vita. Torino, Codice, 2004.
Wrangham R. e Peterson D. (1996) Maschi bestiali: le basi biologiche della violenza umana. Roma, Muzio,
2005.