Il mito di Metis: meticciato del corpo e degli affetti
Marisa D’Arrigo
«I figli di migranti sono esposti al rischio del transculturale (quello del passaggio da un universo all’altro) come gli eroi della mitologia che sono esposti al rischio di vita, Perseo, Edipo, Mosé…Ma se riescono a controllarlo, e se noi clinici, li aiutiamo a costruire dei legami tra questi mondi, questi bambini, come nella mitologia, possono guadagnare delle qualità eccezionali. La situazione in cui si trovano potenzia allora la loro creatività, com’è stato per tutti coloro che hanno superato dei rischi, come per tutti i meticci» [Marie Rose Moro]
Resilienza e Meticciato
Ho incontrato il mito di Metis occupandomi della resilienza, riflettendo cioè sulla etimologia del termine (deriva dal latino resilio, rimbalzare), sul fatto che è un concetto preso in prestito dalla fisica dei metalli e che, adottato dalla psicologia, sta ad indicare la qualità che permette ad una persona, anche se sottoposta ad un “urto” traumatico, di fronteggiare la situazione superandola ed imparando da essa.
La resilienza dunque è una capacità che utilizza flessibilità, adattamento, polimorfismo. Caratteristiche queste, insieme ad imprevedibilità ed ambiguità, proprie della metis, l’intelligenza pratica dell’antica Grecia.
Il mito di riferimento è quello di Metis, sposa di Zeus, che questi ingoia mentre era gravida di Atena e che, lungi dal morire, resta una voce fuori campo (e quindi in una prospettiva ex-centrica) che parla dalla pancia di Zeus. Metis quindi rappresenta la ricchezza e l’occasione in più, data, per dirla con il linguaggio dello scopone scientifico, dallo sparigliamento delle carte.
Da Metis deriva il termine “meticcio” a cui da sempre è stata attribuita sia per la resistenza fisica che per la capacità di adattamento ed apprendimento una sorta di marcia in più.
Meticciato non è osmosi o fusione, non è un patchwork dal gusto kitsch, è discontinuità, un pieno che presuppone il vuoto, è attrazione e repulsione, congiunzione e disgiunzione. Noi, Homo Sapiens, siamo meticci sia in senso biologico che culturale1. Anche semplicemente l’identità linguistica che caratterizza una comunità è formata di parole che sono il prodotto di incontri e di scambi che si evolvono in continuazione.
«Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità» [Papa Francesco, Mozambico 2019].
Il concepimento e la gravidanza
Già la gravidanza è un’apertura alla contaminazione.
Il feto rappresenta un corpo estraneo contro il quale il sistema immunitario materno dovrebbe attivarsi. È la placenta (organo bifronte in quanto costituita da un lato dai tessuti formati dall’embrione e dall’altra da tessuti originati dalla madre) che permette il collegamento tra il sistema circolatorio del feto e della madre e al tempo stesso fa da barriera tra l’ambiente amniotico del primo e la cavità uterina della seconda. In questa funzione filtrante, si legge sui testi di medicina, produce un enzima che abbassa la risposta immunitaria dei linfociti T materni (sentinelle dell’organismo) e questo impedisce le reazioni di rigetto dell’embrione da parte dell’organismo ospitante (cioè della madre).
Già l’utilizzazione di questi termini apre ad angolazioni inusuali di panorami conosciuti: il corpo della madre, come organismo ospitante; il feto, come organo non-self ospitato; il concepimento come innesto.
La vita nasce dal contatto con l’altro/ il diverso/ l’estraneo e l’alterità ha un ruolo cruciale sia nella formazione dei corpi che nella costruzione dell’identità.
La gravidanza sappiamo, come preparazione ad una nascita, è prima, durante e dopo, soprattutto un processo di creazione psichica.
Grazie alle fantasie, ai sogni ed alle immagini che l’accompagnano, permette che il feto (che potremmo definire in maniera brutale “un gruppo di cellule estranee, con un loro patrimonio genetico diverso”) da oggetto di reazioni difensive di rigetto diventi oggetto di investimento narcisistico e di identificazione. La fantasia e le sue immagini, la funzione poietica, svolgono una funzione analoga a quella della placenta, di filtro, protezione e comunicazione.
La gravidanza da ovodonazione
È facile comprendere come tutte queste riflessioni, quelle che ho definito angolazioni inusuali di scenari conosciuti, diventino preponderanti quando ci affacciamo su scenari inusuali, come quelli che in ambito di riproduzione umana la scienza e la tecnica ci offrono: quali ad esempio la gravidanza da ovodonazione.
In questo caso l’embrione è totalmente un “non sé” per il sistema immunitario materno. Ci si trova di fronte cioè ad un vero e proprio “trapianto” che, proprio in virtù della placenta, non viene rigettato come “estraneo” ma attiva uno specifico e particolare adattamento immunologico. Questo processo contempla però anche l’aumento, percentualmente riscontrato, del rischio di problematiche organiche (ipertensione, preeclampsia, diabete gestazionale, emorragie). Si riscontra cioè sul piano corporeo una maggiore possibilità di difficoltà di accoglimento.
L’estrema tecnicizzazione della procedura comporta tempi contingentati che impediscono il necessario processo di elaborazione di quelle che in queste situazioni sono (oltre alla sterilità) le due tematiche di fondo: quella dell’“estraneo” e quella del “dono”.
Se è vero che l’estraneo (in questo caso l’estranea) è vissuto come un “donatrice”, quindi come colei che permette la realizzazione del desiderio, sarà un elemento per sempre presente nella mente dei genitori a testimonianza della incapacità procreativa. Oltre che naturalmente per sempre presente nelle cellule del figlio
In queste pratiche inoltre domina la tirannia del tempo come Krònos piuttosto che come Kairòs, come quel giusto tempo cioè necessario per far emergere le fantasie associate e per permettere alle coppie di imbastire la propria storia, la narrazione di cui sentirsi protagonisti.
Di fronte al velocissimo cambiamento relativo al modo di poter diventare genitori, è necessario stimolare l’attività poietica, proponendo «nuove riflessioni per consentire a queste donne e a questi uomini di trovare nuovi modi per raccontare il loro diventare genitori”» (Magda Di Renzo).
Ancora una volta sono la narrazione e le immagini da questa evocate che ci vengono incontro.
Maria Rosa Cutrufelli nel suo romanzo L’isola delle madri parla, in un mondo distopico dove il Grande Vuoto (la sterilità) è diventata la malattia, di mamme uovo, mamme canguro e mamme giardiniere.
Il trapianto d’organo
Allontaniamoci ancora di più dalla galassia del conosciuto verso i limiti degli scenari inusuali e sconosciuti relativi al nostro corpo. Un trapianto d’organo è evento assoluto: mette a contatto sul piano più primitivo, quello dell’assimilazione corporea tra due persone, due estraneità, sotto l’egida della morte.
«Per mezzo dei trapianti, le chimere sono scese tra noi dal mondo del mito, richiedendo alla nostra specie nuove e inedite risposte. Per la prima volta nella storia dell’uomo è possibile violare la barriera che separa il Sé dall’Altro e agire sulla nostra più profonda essenza di corpi abitati da menti»2.
Il corpo del soggetto trapiantato attacca l’intrusione di un organo estraneo ed intruso e contemporaneamente l’organo donato attacca le difese immunitarie del soggetto trapiantato. È una guerra a tutto campo «... dover attaccare, se si vuol vivere, la trincea più intima della propria identità… rischiando così, pur di permettere all’organo dell’altro di attecchire nel nostro corpo, proprio di rendere quest’ultimo il più estraneo possibile… mantenendo l’organismo costantemente in bilico fra salute e malattia, vita e morte, chiusura immunitaria ed apertura all’altro…»3.
È una sorta di paradosso: più è ridotta la mia immunità (che mi protegge dall’esterno e dall’altro) più mi è garantita la possibilità di vivere, man mano che l’altro è in me, più aumenta l’estraneità da me stesso e divento altro da me.
Il trapianto implica profonde trasformazioni della rappresentazione di sé e l’andamento di questo processo, come ci dice la letteratura, ha importanti ricadute per l’andamento del post-impianto. D’altra parte, noi “siamo” il nostro corpo e la rappresentazione mentale che ne abbiamo attinge in minima parte a contenuti oggettivi, prevalentemente affonda le sue radici nel nostro mondo immaginario e fantastico.
Nelle fasi arcaiche della mente, sia nella storia infantile che nella storia umana, compaiono rappresentazioni (animali o personaggi) in cui sono integrate parti differenti sia per origine che per appartenenza (La Chimera, la Sfinge, la Sirena) Queste sono figure mitiche, hanno una collocazione di confine (tra vita e morte, tra universo umano ed animale, tra maschile e femminile) e sono una sorta di rappresentazione dell’impensabile, del mostruoso e dello straordinario.
Abbiamo parlato della gravidanza (in particolare quella da ovodonazione) come di un trapianto: in parallelo l’innesto di un organo potrebbe essere rappresentato come una sorta di gravidanza. Proprio come nella gravidanza, l’organo non-self (il feto nella gravidanza) deve essere investito narcisisticamente ed assimilato alla immagine corporea, stabilendo un processo di identificazione profonda tra l’ospite e il donatore.
Alcuni autori (Crombez e Lefebvre) parlano di accorporazione, termine che comprenderebbe entrambi i versanti dell’esperienza: l’incorporazione che esprime il passaggio somatico dall’esterno all’interno attraverso gli orifizi corporei; l’introiezione che costituisce una modalità di interiorizzazione sul piano mentale.
Se questo processo non avviene, il soggetto può continuare a sentire l’organo trapiantato come una protesi, come estraneo e, nei casi più estremi, come un persecutore.
Il processo di assimilazione è lungo e complesso, mette a contatto con il lutto per l’organo perduto e con le fantasie ed i vissuti nei confronti del donatore. L’organo trapiantato, infatti, non è un “pezzo di ricambio”, non è inerte da un punto di vista psicologico (come non lo è biologicamente), ma comporta un ineludibile rapporto con il donatore.
Si possono attivare fantasie predatorie e sensi di colpa: ricevere un organo presuppone o una mutilazione (anche se volontaria) o la morte del donatore. L’espianto assume a volte, nella rappresentazione mentale, i contorni di un’uccisione.
L’immagine di Sé, quindi, può essere alterata da manifestazioni analoghe a quelle della “sindrome del sopravvissuto” proprie di persone sopravvissute a disastri o incidenti.
Alla base del trapianto c’è la donazione (che è un atto volontario, consapevole, gratuito ed anonimo) e il sacrificio. Donazione e Sacrificio fanno parte dei Grandi Temi e del corredo delle figure eroiche e del loro intervento nel mondo.
I processi di assimilazione, le mescolanze, l’appartenenza ed il riconoscimento hanno bisogno di essere sorretti da un apparato simbolico che tenga insieme e metta in comunicazione interno con esterno, reale e fantastico, conservando distinzione ed individualità.
L’adozione come trapianto
Allontaniamoci dal corpo, andiamo sul piano delle relazioni e degli affetti.
Una mamma adottiva nel tentativo di raccontare la sua storia ad un gruppo di aspiranti genitori adottivi ha detto “L’adozione è come un trapianto d’organo”.
Apparentemente non c’entra il corpo: la vicenda adottiva, che vede l’intervento di funzioni professionali ed istituzioni differenti, nasce come vicenda pubblica (è un Tribunale che la decreta). Affonda però le sue radici nel privato, in corpi sterili, ed al privato deve ritornare, a corpi che siano capaci di vicinanza ed intimità con l’altro/ l’estraneo.
Su quale registro possono incontrarsi una madre ed un figlio adottivo, privati entrambi dell’esperienza fisica della gravidanza (dell’essere contenuto in quella pancia, dell’aver contenuto quel bambino)? Come si gioca la presenza del padre (più “paritaria”, in quanto per suo ruolo escluso sempre dalla fisicità della gravidanza)?
Nell’adozione, così come nei trapianti o per estensione anche nel processo terapeutico, non c’è una sostituzione del pezzo mancante o difettoso, non si ricrea ciò che non c’è stato né si cancella o modifica ciò che è stato ma si crea qualcosa di nuovo. Si tesse un nuovo intreccio con i fili di cui ognuno è portatore: ci si apre non solo a possibilità sconosciute ma anche a visioni diverse del conosciuto.
Il processo adottivo è un vero e proprio laboratorio di identità, che permette il passaggio da genitore adottivo a genitore e da figlio adottivo a figlio.
Questo processo, lo sappiamo, inizia ancor prima della nascita e della nascita adottiva, in un “prima” che comprende le fantasie (della madre, del padre, della coppia genitoriale) che hanno preceduto, permesso o impedito il concepimento, che hanno accompagnato la gravidanza o la presa d’atto di una sterilità, e poi indietro ancora ai nonni, ai miti familiari…
Nell’adozione si assiste ad un complesso e contraddittorio processo: da una parte è necessario che il bambino altro/estraneo/straniero diventi oggetto di investimento narcisistico da parte dei genitori, dall’altra nella loro mente l’immagine del bambino ideale deve via via lasciare il posto al bambino reale, portatore di somiglianze o diversità; ed ancora l’estraneo deve essere assimilato come appartenente, ma riconosciuto e valorizzato nella sua diversità...
L’acquisizione dell’identità infatti passa attraverso attaccamento e separazione, assimilazione, appartenenza e valorizzazione della differenza.
Identità significa anche consapevolezza di avere punti di riferimento stabili. Questo grazie anche all’ancoraggio alla cultura familiare, alla tradizione (come conoscenza e condivisione della storia, del codice linguistico ed affettivo, etc.).
Quando in questo processo di comunicazione c’è discontinuità (e questo è il caso dell’adozione o di quelle nascite particolari che non hanno storia) si crea una pericolosa frammentazione. Se al bambino/figlio non è possibile crearsi rappresentazioni verbali congrue (perché in riferimento ad avvenimenti sconosciuti, traumatici, o indicibili, insostenibili ed irrappresentabili per i genitori, quindi non assimilabili con una funzione di rêverie) si creano solo rappresentazioni sensoriali-motorie, si attivano meccanismi di scissione, isolamento dell’affetto e negazione (la seconda linea di Difese del Sé di cui parla Kalsched) che bloccano ogni creatività.
Utilizzando la metafora dell’adozione come trapianto, possiamo dire che si scatena una tempesta immunitaria.
C’è bisogno di una funzione di contatto, assicurata dalla possibilità del racconto, metaforica placenta. Non sono i documenti, le prove che hanno senso, ma le storie e la trama degli affetti che vi è sottesa. Attraverso il racconto, la formazione di una storia e di un lessico famigliari, è possibile la formazione di quel senso di appartenenza complementare alla formazione del senso di identità.
Questo ricorda gli studi fatti sulla formazione dell’identità del continente latino-americano: in una terra caratterizzata da un meticciato biologico e culturale (le popolazioni indie originarie, i conquistadores spagnoli, gli africani, gli immigrati), a livello culturale e storico l’acquisizione di una identità è passata attraverso l’unità linguistica e la capacità letteraria di raccontare e raccontarsi, oltre alla disponibilità e all’interesse ad ascoltare.
Se non c’è racconto, se non c’è elaborazione, c’è la stagnazione delle parole, dei sentimenti bloccati e non fluenti. Ed il pensiero va ancora all’America Latina, a Manuel Scorza, al tempo malato di Garabombo, che dà luogo ad una palude putrida dove avvenimenti ed emozioni, impossibilitati a scorrere, avvelenano con il loro fetore ogni forma di vita intorno.
L’immaginazione
C’è bisogno di un mito di riferimento, di una storia raccontata, da raccontarsi e da raccontare, dove elementi di realtà sfumino in rappresentazioni ed immagini fantastiche e dove le estraneità (degli organi e delle origini) possano riconoscersi e in qualche modo legittimarsi come interpreti ed autori.
E dell’immaginazione, di questa attività poietica, fa parte il confronto con la morte (l’amputazione/perdita dell’organo o della famiglia d’origine o di una potenzialità generativa), il passaggio attraverso il dolore ed il lutto. Se non c’è la salma non si può fare il funerale e le figure morte e non seppellite non potranno mai trovare né dare pace.
Potremmo definire la vita mentale proprio come una continua costruzione di significati e la psicopatologia come uno smarrimento in questo senso: esiste infatti un’intima correlazione tra sentimento di identità e capacità di raccontarsi.
«… moltiplicare i punti di vista, farli incontrare e scontrare tra di loro. Usare tutte le facoltà immaginative di cui si può disporre… Attraversare il mito per raggiungere la concretezza del presente [...] per esistere, per avere la giusta consapevolezza di te, devi avere una storia che ti precede...».
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