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Il ruolo della psicologia nell’Italia post-Covid: una riflessione sull’evoluzione dell’identità professionale in questo tempo di crisi

Pietro Madera, Sebastiano Zanetti

Stiamo vivendo un momento storico molto complesso, costellato a livello mondiale da crisi di tipo sanitario, politico, energetico, economico, ambientale e sociale. Prendendo a prestito un termine moriniano, stiamo assistendo ad una “policrisi”, che si ripercuote a cascata in cambiamenti a tutti i livelli della società, imponendo una riflessione su quali paradigmi saranno protagonisti in questa epoca. In particolare, per noi psicologi è necessario ripensare e riaffermare la nostra identità professionale al fine di far emergere il nostro valore etico, politico e sociale a servizio delle persone. Pertanto, il presente articolo si svilupperà lungo tre direttrici principali, chiavi di volta per rispondere in modo puntuale e coerente alle esigenze attuali del Paese, in un’ottica di ripristino di un nuovo equilibrio individuale e collettivo e di valorizzazione della professionalità e delle competenze degli psicologi.

1. Abitare la complessità
La categoria della crisi è parte irrinunciabile del nostro bagaglio. L’etimo greco si riferisce ad un termine presente nella medicina ippocratica per indicare un punto decisivo di cambiamento che si verifica durante una malattia, di cui solitamente risolve il decorso in senso favorevole o sfavorevole. In ambito psicologico, si riferisce a un momento della vita caratterizzato dalla “rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi abituali di comportamento che si rivelano non più adeguati a far fronte alla situazione presente” (Galimberti, 1992). Ogni crisi implica quindi minaccia, incertezza, urgenza, disfacimento o frattura del tempo organizzato, complessità, minacce per gli obiettivi considerati prioritari, ridotto intervallo di tempo per reagire, conseguenze inattese o impreviste. Una crisi implica inoltre una situazione non ben definita in cui le risorse sono inadeguate ad affrontarla: pertanto, in un primo momento, i meccanismi di difesa appaiano inadeguati a svolgere la loro funzione protettiva, fino al punto in cui non sono più operanti. A questa condizione seguirà una rottura omeostatica, ovvero la fine degli equilibri interni precedenti. Il soggetto o il sistema in crisi, se sostenuto, può attingere alle risorse interne ed esterne di cui dispone per creare forme di vita nuove, allo stesso tempo funzionali e soddisfacenti. Al contrario, in condizioni di isolamento o svantaggio socio-economico, potrebbe tentare di affrontare il sentimento della sopraggiunta inefficienza con un progressivo irrigidimento difensivo, finendo per ritrovarsi in una vera e propria cristallizzazione di schemi mentali e di modalità comportamentali o relazionali. Oppure è plausibile una regressione a meccanismi di funzionamento infantili e più primitivi, il cui scopo è semplificare la realtà e/o delegare all’altro la responsabilità di trovare delle soluzioni che possano ristabilire un nuovo equilibrio. La ricerca ci aiuta, ad esempio, a evidenziare questi meccanismi come sentimenti di mancanza di controllo (Whitson & Galinsky, 2008; van Prooijen & Acker, 2015), di impotenza (Abalakina-Paap et al., 1999), incertezza (Bale, 2007; van Prooijen, 2016; van Prooijen & Jostmann, 2013) e alienazione (Abalakina-Paap et al., 1999; Goertzel, 1994), che sono particolarmente acuti durante i periodi di avversità, ad esempio legati a condizioni climatiche estreme o a carestie (Hogg, 2007), che hanno sempre fatto da sfondo al fiorire di conflitti intergruppi e teorie del complotto. Seguendo Douglas e colleghi (2017), essi contribuiscono a soddisfare motivazioni epistemiche (comprendere il proprio ambiente), esistenziali (sentirsi al sicuro) e sociali (mantenere un’immagine positiva di sé e del proprio gruppo). Da una prospettiva psicodinamica, si può osservare come la nemicizzazione dell’altro, come interpretazione fortemente emotiva della realtà, basata su categorie di significato fortemente generalizzate e omogeneizzanti (lo schema amico/nemico), possa essere intesa come una strategia di base adottata dal sistema cognitivo per dare senso al mondo quando questo si presenta come troppo complesso, incerto, opaco, al di fuori non solo del proprio governo, ma anche della possibilità di rappresentarlo (Salvatore, Mannarini et al, 2019; Salvatore, Palmieri et al., 2019). Lo schema amico-nemico consente infatti di ridurre drasticamente la variabilità ambientale alla distinzione a un grado di libertà tra essere o non essere altro da noi; una distinzione che, individuando oggetti persecutori (“i politici”, “i cinesi”, “gli immigrati”) o salvifici (i legami di appartenenza, identità nazionale), orienta il senso dato a chi siamo, con chi dobbiamo combattere e verso quale direzione. In questo panorama miti e idoli del passato appaiono più duri a tramontare, interiorizzati al pari di riflessi condizionati. Se comprendiamo questa domanda di senso e di identità, capiamo anche che non possiamo “risolvere” il problema dei no-vax (né quello della discriminazione di ogni tipo di diversità – nazionale, di genere, di orientamento sessuale o credo religioso – per citare altre forme in cui lo schema amico/nemico si esprime) immaginando terapie per il singolo; dobbiamo sostenere – presso politici e istituzioni – la comprensione della domanda di senso che essi segnalano; una domanda tanto più profonda, quanto più la transazione con l’ambiente appare incerta, i problemi poco rappresentabili, le alternative per affrontarli indisponibili. Si tratta, sul piano dell’intervento, di superare la scissione del pensiero dicotomico e di accompagnare la società in un processo di trasformazione in cui sia possibile abitare la complessità, tenere insieme gli opposti, accogliere l’incertezza del “non essere più” e del “non essere ancora” rifuggendo la semplificazione come tentazione risolutiva degli stati d’angoscia. La complessificazione del mondo oggi esige un’attitudine al pensiero complesso per poter prendere decisioni; semplificando la realtà si finisce per mutilarla e ostacolare la sua comprensione, con il risultato di pregiudicare la definizione e la soluzione dei problemi.

2. Traghettare da un assetto all’altro
Un esempio concreto e calzante della semplificazione è la scotomizzazione dell’aspetto positivo racchiuso nello stesso concetto di crisi. Socialmente, infatti, appare molto rivestito da un alone di negatività e considerato come qualcosa da evitare, da allontanare al più presto, e sicuramente da temere, in quanto può evolvere nella direzione peggiore, piuttosto che nella direzione costruttiva e positiva. Tuttavia, l’emergere di una crisi indica la comparsa di un momento cruciale nel percorso evolutivo di una persona o di un sistema, che partendo da un “pericolo”, da una sofferenza, può riconoscere l’opportunità di un cambiamento. Lo stress derivante dalla crisi può favorire lo sviluppo del sistema, offrendo agli individui che ne fanno parte l’opportunità di apprendere e cambiare. Il concetto di crisi come preziosa opportunità di crescita evidenzia anche l’importanza di affiancare alla visione “patologizzante“della psicologia un approccio biopsicosociale che si concentri sulla salute globale della persona nel suo ambiente, ponendo l’accento sulla promozione della salute e dello stato di benessere soggettivo, intesi come autorealizzazione, esplorazione del nuovo, ancor più che sulla prevenzione della malattia e dello stato di malessere (Zani e Cicognani, 2000). Il punto focale di riferimento è, quindi, rappresentato dalle ‘risorsÈ più o meno nascoste, piuttosto che dalle patologie più o meno manifeste. La conseguenza sul piano applicativo è quella di privilegiare una sollecitazione e una valorizzazione delle prime, piuttosto che una correzione o una rimozione delle seconde (Braibanti, 2004). In questa prospettiva, particolare attenzione viene data al concetto di benessere, non semplicemente inteso come vigore psicofisico, ma riferito a uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1948), discendente da condizioni socio-culturali soddisfacenti, che passano necessariamente attraverso la ricerca di un equilibrio e armonia interiori e di forme relazionali appaganti (Mazzoleni, 2004). Un concetto più ampio, dunque, che fa riferimento ai livelli di soddisfazione psico-sociale e che porta l’attenzione sulle dimensioni etiche del benessere, inteso come dimensione relazionale di un soggetto in crescita e in evoluzione attiva verso condizioni positive di vita (Ibidem, 2004). Un benessere concettualizzato non come fenomeno statico, ma come realtà dinamica in cui le condizioni relazionali sono in continua evoluzione e non sono mai acquisite in modo definitivo, poiché dipendono dal ciclo di vita (individuale e familiare) che richiede il continuo superamento di eventi critici, attraverso la mobilitazione di risorse, nella ricerca di forme relazionali sempre nuove, adattive e soddisfacenti per le mutate condizioni di crescita (Ibidem, 2004). Il benessere non è quindi inteso come uno ‘stato’, ma come una capacità ‘reattiva’ rispetto a fattori che hanno in sé la potenzialità di indurre malessere; non è dato dalla semplice assenza di tali fattori critici, ma piuttosto da un equilibrio dinamico con l’ambiente in cui il soggetto si misura costantemente con fattori di malessere, superati in virtù di risorse e capacità adeguate e ben gestite (Ibidem, 2004). Già nel 1957 Anthony Foulkes scriveva: “Il disturbo che vediamo davanti a noi, materializzato in un certo paziente, è di fatto l’espressione di un equilibrio disturbato in un campo totale di interazione che coinvolge un certo numero di persone diverse (…) d’ora in avanti, infatti, pur essendo localizzati in un individuo, considereremo i sintomi espressione della sofferenza di un’intera rete gruppale (plexus)” (Foulkes, 1957: 46). E più tardi: “(l’individuo è) Un pezzo di un puzzle” formato ma anche ‘deformato’, dalle condizioni caratterizzanti la rete in cui è nato e cresciuto.” (Foulkes, 1974: 275). Foulkes annuncia una rivoluzione, che non investe solo il modo di concepire la funzione psicoterapeutica, ma – più profondamente – un modo di guardare alla mente: il mondo interno individuale viene concepito come elemento di una dinamica psicologica che emerge dall’interazione di dimensioni familiari, transgenerazionali, istituzionali e socioculturali. Pertanto, allontanandoci dal pregiudizio individualistico storicamente dominante nella psicologica, è possibile prendere in considerazione la possibilità di eleggere a target di intervento i sistemi comunitari all’interno dei quali le persone pensano, valutano, agiscono la loro esperienza e maturano modelli di interpretazione della propria identità sociale. In tal senso, è necessario invertire la rotta del tessuto sociale focalizzata sull’interesse personale e sulla propria nicchia di appartenenza, e orientarsi verso la promozione di un senso di comunità, fondato su valori condivisi come la solidarietà, l’empatia, la partecipazione, l’inclusione, in modo da ritrovare le radici comuni che legano il benessere individuale al benessere collettivo. Il compito di riconoscere e dare rilevanza al rapporto tra la sfera individuale e quella sociale dell’esperienza appare dunque arduo, come dimostra, ad esempio, il profondo crollo dell’impegno civico e dell’azione collettiva che ha caratterizzato le recenti elezioni. Tuttavia, è proprio in questa cornice che si può inserire, sviluppare ed esercitare la funzione di cambiamento sociale della psicologia. In alcuni recenti contributi è emerso come, superata la fase acuta della pandemia, la gestione della crisi richieda risorse simboliche capaci di riconoscere l’interesse collettivo come qualcosa che conta e di utilizzare quindi il riferimento a un bene comune astratto, come regolatore saliente del proprio modo di sentire, pensare e agire (Venuleo, Gelo, & Salvatore, 2020). Questa risorsa simbolica, che possiamo definire “capitale semiotico” (Salvatore et al., 2018), può sostenere evidentemente l’adozione di comportamenti e atteggiamenti coerenti non solo con il contenimento dell’emergenza sanitaria, ma anche con altri temi e problemi collettivi, come il cambiamento climatico, la disuguaglianza nella distribuzione globale nelle risorse economiche, i processi di esclusione dell’Altro da sé, i conflitti interetnici e le sfide di integrazione. Pertanto, la psicologia può sostenere la trasformazione sociale attuale facendosi promotore di una cultura della salute mentale come bene collettivo, volano per lo sviluppo della comunità. In questo senso, la psicologia deve essere sempre più un agente di cambiamento, un contributo attivo al miglioramento del tessuto sociale, economico e innovativo del Paese. Occorre che divenga uno strumento per costruire un nuovo sistema di coesione sociale, in virtù della sua sensibilità e competenza. In tal senso, sarebbe auspicabile un intervento strutturale nel contesto istituzionale dove, alla luce di quanto già espresso, la psicologia possa guidare e sostenere una leadership improntata al cambiamento favorendo una lettura dinamica e articolata del contesto al fine di supportare un processo di decision-making più aderente alla realtà e maggiormente coerente alle esigenze della società.

3. Responsabilità sociale
Purtroppo, attualmente gli psicologi italiani non hanno la possibilità di scoprire e approfondire gli aspetti sociali del proprio lavoro e quindi non si interessano, se non marginalmente, alla funzione sociale della propria professione, considerandola erroneamente in eccesso se non superflua rispetto al mandato privato che ricevono dalla loro formazione prima, e dai loro clienti. Lo psicologo rimane quindi un professionista per lo più investito privatamente riguardo la sua funzione e molto poco socialmente. Tuttavia, in quest’ottica è opportuno riappropriarsi del concetto di responsabilità sociale, già espresso al primo comma dell’art. 3 del vigente Codice Deontologico degli Psicologi Italiani: «Lo Psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità». L’uso, all’interno di questa norma, del verbo “promuovere” indica chiaramente un atteggiamento professionale “attivo” che, dal punto di vista etico e deontologico, non può certo ritenersi soddisfatto nella semplice “non violazione” delle norme deontologiche presenti nel Codice, ma che contiene in sé anche la necessità sia di azioni proattive volte all’affermazione del benessere psicologico delle persone e della comunità, sia di motivazioni personali e professionali coerenti con il raggiungimento degli obiettivi sottostanti. Questa formulazione indica quindi l’ineludibile necessità di operare un’ulteriore fondamentale distinzione, ovvero quella tra una pura e semplice “etica passiva” e una ben più “dinamica”, e certamente di diverso livello qualitativo, “etica attiva”. Infatti, definiamo l’etica cosiddetta “passiva” come una semplice attenzione alla “non violazione” delle norme deontologiche. Al contrario, un’etica cosiddetta “attiva” implica che ogni psicologo abbracci profondamente la necessità di “contribuire al bene”, qualunque sia la propria cornice teorica di riferimento. L’etica, quindi, in tale concezione, non si definisce più solo come “non fare” cose contrarie a norme o principi deontologici, ma si trasforma in attività, fatta di azioni e parole, finalizzata alla promozione e al raggiungimento del benessere individuale e collettivo. Va sottolineato che l’agire etico ha ripercussioni che vanno ben oltre l’ambito estremamente soggettivo, in quanto come professionisti rappresentiamo una categoria e quindi ognuno di noi contribuisce ad accrescere e consolidare la reputazione sociale della psicologia mettendo in atto comportamenti coerenti con l’insieme di valori in cui si identificano la cultura, le finalità e il significato della nostra professione. Pertanto, la responsabilità sociale va intesa anche come la capacità di “rendere conto” (accountability) delle proprie azioni alla comunità professionale e ai cittadini, migliorando così la reputazione sociale e la fiducia nell’intero sistema della Psicologia. Significa essere in grado di rispondere delle proprie azioni, e questo implica che il professionista deve comprendere che l’azione di cui è responsabile, non solo deve essere collocata e compresa all’interno di quadri normativi, ma anche deve avere delle ricadute positive misurabili e utilizzabili da parte della comunità. In particolare, si tratta di basare il nostro agire professionale su evidenze scientifiche e svolgere puntualmente una valutazione degli esiti al fine di rispondere a criteri di appropriatezza, di efficacia ed efficienza. L’adozione di questa metodologia nella prassi quotidiana consente di definire concretamente la qualità del lavoro psicologico e i benefici che esso può generare a livello personale, gruppale, sociale e non ultimo amministrativo. Ciò garantisce la possibilità di interfacciarsi e dialogare con i decisori politici e stakeholder locali che necessitano di un riscontro “oggettivo” su cui basare le proprie scelte. Inoltre, questa impostazione può contribuire a favorire in familiari, insegnanti, medici di base, policy-makers e figure che a vario titolo si preoccupano di contrastare il disagio, lo sviluppo di una cultura psicologica più “scientifica“ e il superamento di stereotipi e pregiudizi legati alla delicatezza del disagio mentale, che a differenza di quello fisico porta con sé uno stigma, scrupoli e ritrosie. Infine, valorizza il ruolo e le competenze della Psicologia incoraggiando il miglioramento continuo della qualità dei servizi e il raggiungimento/mantenimento di elevati standard di cura, stimolando la creazione di un ambiente che favorisca l’eccellenza professionale.

Bibliografia

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