Comorbilità fra disturbi da uso di sostanze, addiction, disturbi dell’alimentazione e altri disturbi mentali: una sfida per la pratica clinica
UMBERTO NIZZOLI - Psicologo, presidente Società italiana disturbi comportamento alimentare SISDCA, già direttore dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche, RE
La dipendenza patologica è quella condizione in cui l’individuo ha bisogno, assolutamente, di avere, immediatamente, la cosa che manca (che crede fermissimamente che gli manchi), che brama, come esige la madre di tutte le dipendenze. La dipendenza patologica ha una estesa comorbilità interna o esterna. Anche se l’EBM è “integrare l’esperienza medica con le migliori prove della letteratura scientifica”, di solito c’è un enorme divario tra la ricerca e la pratica clinica. Mappare la complessità della comorbilità (disturbo da uso di sostanze e altre malattie mentali, disturbo da uso di sostanze e disturbi alimentari, disturbi da uso di sostanze, disturbi alimentari e altre malattie mentali), aiuta i professionisti a concentrarsi maggiormente sulle reali esigenze del paziente e del suo contesto
Introduzione
Secondo Sackett [1], l’EBM “integra l’esperienza medica con le migliori prove della letteratura scientifica”. In altre parole, il clinico deve essere in grado di: ricercare (usando moderni strumenti biomedici), valutare criticamente (grazie alla competenza epidemiologica clinica) e personalizzare, con riguardo al proprio cliente, il miglior risultato riportato dalla letteratura scientifica [2 - 3].
Di solito però c’è un divario tra ricerca e pratica clinica [4], tra la produzione di prove e l’adozione in ambienti di pratica clinica e le linee guida per il trattamento, basate su prove di dati, sono comunemente impiegate in diversi campi della medicina, inclusa la malattia mentale.
Non è chiaro, tuttavia, se le linee guida per il trattamento abbiano un impatto sulle prestazioni dei vari provider e sui risultati ottenuti dai pazienti e su come l’implementazione dovrebbe essere condotta per massimizzare i benefici [5].
“Doppia diagnosi”
Anche se Rousanville [6] ha richiamato l’attenzione sui sintomi della depressione nei
soggetti dipendenti da oppiacei, l’argomento è rimasto per molto tempo al di fuori del campo della pratica clinica.
A quel tempo (1982) la maggioranza dei pazienti era costituita da tossicodipendenti da oppiacei e riceveva un trattamento con metadone (a scopo antidepressivo) o un trattamento drug-free all’interno di una comunità terapeutica, oppure un trattamento di gruppo basato sui dodici passi, secondo il modello di AA.
Solo nel 1997 la Commissione europea ha sostenuto un progetto destinato alla psicopatologia della tossicodipendenza affidandone la gestione alla Federazione T3E, [7].
Da allora la “doppia diagnosi” (o comorbilità psichiatrica o co-occorrenza di malattia mentale e disturbi da uso di sostanze) è diventata un argomento continuo per pazienti, famiglie, partner, parenti, responsabili politici, professionisti e dirigenti dei presidi sociali e sanitari.
L’uso del termine “doppia diagnosi” per indicare la concomitanza di due o più disturbi mentali potrebbe essere errato perché non è chiaro se le diagnosi concomitanti riflettano effettivamente la presenza di entità cliniche distinte o si riferiscano a molteplici manifestazioni di una singola entità clinica. È un quesito interno alle vigenti nosografie dominanti. Questa molteplicità di diagnosi si verifica perché i quadri diagnostici in uso sono più sindromi che malattie in senso fisiopatologico. In quel campo la pratica clinica diventa tanto arte quanto scienza [8].
La comorbilità può verificarsi per caso o come conseguenza degli stessi fattori predisponenti (ad esempio stress, personalità, ambiente infantile, influenze genetiche) che influenzano il rischio per molteplici altre condizioni. La ricerca nelle neuroscienze di base ha dimostrato i ruoli critici dei fattori biologici e genetici o epigenetici nella vulnerabilità di un individuo a questi disturbi. Infatti i geni, le basi neurali e l’ambiente sono intimamente interconnessi [9].
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